In base alle testimonianze archeologiche, esisteva nell’antico Giappone una prassi musicale dal III secolo a.C. I primi incontri con musiche straniere o continentali sono con quelle che provengono dalla Corea (435 d.C.) e con lo shomyo, il canto buddista. Durante il periodo Nara (710-748) si stabilizzano i fondamenti teorici, attraverso l’adattamento di pratiche religiose e cortigiane straniere e la prima elaborazione dell’alfabeto giapponese, sul modello di quello cinese.
L’insieme di pratiche della religione giapponese antica viene definita Shintoismo – da shin-to, “via degli dèi” – a partire dal VI secolo d.C. per distinguerlo dalla religione buddista, che iniziava all’epoca a infiltrarsi nella cultura religiosa locale fino a fondersi con essa, e dall’influenza di confucianesimo e del taoismo. Fino a quel momento conglomerato di credenze e di divinità locali (dèi della natura, spiriti dei defunti, per cui venivano compiuti riti per placarne le forze) senza nessuna tendenza unificatrice, è basata sull’adorazione di divinità che sono spiriti naturali o presenze spirituali (kami), guardiani di un luogo particolare, oppure specifico oggetto o elemento naturale.
La musica classica giapponese è basata su due modi: ryo e ritsu. La musica di corte è chiamata Gagaku (“musica elegante”), e presenta gli stessi caratteri utilizzati dalla musica imperiale in Cina (yen yueh) e in Corea (aak). I generi della musica giapponese sono classificabili secondo due criteri: le origini storiche o la prassi esecutiva.
In base alla classificazione per periodi abbiamo due generi principali: il togaku, originario dell’India e della Cina, e il komagaku, che proviene invece dalla Corea e dalla Manciuria. Essi restano, non ostante la presenza di repertori di altre regioni come il Sud Est asiatico, e di musiche autoctone, le due nozioni di base per ogni analisi del materiale e delle prassi esecutive.
Termini fondamentali dell’esecuzione del gagaku sono il bugaku, musica che accompagna la danza, e il kangen, musica puramente strumentale. La musica vocale si individua attraverso il genere specifico del brano eseguito. La strumentazione consta di hiciriki, ad ancia doppia, e sho, organo a bocca di 17 canne di bambu raccolte in un serbatoio d’aria. Lo sho produce un grappolo di suoni, sopra le note fondamentali della melodia, benché in origine esse potessero essere prodotte separatamente.
Il ryuteki è la melodia eseguita dal flauto nel togaku, mentre nel komogaku essa è chiamata komabue. Se nel gagaku viene usata una melodia scintoista, si usa il flauto kagurabue, che differisce per dimensioni e intonazione. I principali strumenti a percussione sono il gaku-daiko, un grande tamburo a barile, e il shoko, un piccolo gong. Colui che dirige nel togaku usa un piccolo tamburo a barile (kakko) con due bacchette, nel komagaku un tamburo più grande a forma di clessidra (san no tsuzumi), percosso su un solo lato con una bacchetta.
Cetra su tavola e liuto eseguono solo brevi melodie stereotipe che hanno unicamente la funzione di scandire il tempo, come per il tamburo grande e il piccolo gong. La più antica scrittura musicale giapponese arrivata a noi è costituita da un frammento di notazione per liuto, ritrovato nella camera del tesoro Shosoin (VIII sec d.C.), che contiene anche 45 strumenti che riflettono la magnificenza e il gusto continentale dell’antica musica giapponese.
Col XIII secolo le cronache di corte e le novelle si uniscono a un numero crescente di partiture, molti titoli delle quali possono essere fatti risalire al patrimonio dell’Asia orientale, mentre altri mostrano il sorgere di uno stile compositivo originale. La notazione gagaku consta in primo luogo di una serie di “aiuti” per la memoria dell’esecutore, dato che la musica in Giappone viene generalmente insegnata come un fatto sonoro piuttosto che grafico.
L’allievo impara per via orale, attraverso l’insegnamento di un maestro, prima di ‘leggere’ la musica. Il modo in cui viene letta attualmente la musica gagaku può differire notevolmente dalla interpretazione originale.
Il teatro No, che si sviluppa nei secoli XII e XV, consta di narrazioni epiche e drammi. Le rappresentazioni sono accompagnate dal liuto biwa, e si tengono sui palcoscenici dei sacrari shinto o nei templi buddisti. Kannami Kiyotsugi (1333-83) e suo figlio Zeami Motokiyo (1363-1444) fecero evolvere tali prassi fino a far diventare il teatro No modello dello stile teatrale giapponese assieme al teatro popolare (geino).
Il canto è intonato dagli attori principali (shite o waki) in un coro all’unisono (ji) e nel suono di tre tamburi e un flauto, nel loro insieme noti come hayashi. La musica vocale è detta utai o yokyoku. Si basa su modelli buddisti, sebbene i risultati musicali siano sensibilmente differenti dai canti religiosi buddisti. Presentano regole tonali e melodiche rigorose: l’improvvisazione non è ammessa, benché le diverse scuole interpretino le stesse composizioni in modi diversi e impieghino stili vocali differenti.
Per sottolineare i passaggi tra le sezioni e definirne l’atmosfera, e spesso accompagnare le danze, viene utilizzato il flauto hayashi: quattro melodie stereotipe di otto battute, formatesi durante la lunga evoluzione del teatro No e arrangiate nel modo appropriato alla singola danza; si aggiungono particolari forme melodiche che servono a identificare le danze o le loro sezioni (dan). Il tamburo taiko accompagna solo la danza. Il suo repertorio è costituito di formule stereotipe che di solito si eseguono secondo un ordine prestabilito, consentendo allo spettatore di intuire gli sviluppi dell’azione.
Un simile sistema organizzativo hanno anche il piccolo kotsozumi e il grande otsuzumi. Oltre a accompagnare la danza, questi due strumenti rappresentano l’essenziale sostegno di gran parte della musica vocale. Per assolvere questa funzione, gli esecutori devono conoscere l’intero testo del brano eseguito, così da poter inserire le adeguate formule ritmiche nel contesto della distribuzione sillabica dell’esecuzione.
Anche se l’improvvisazione non è pratica comune, le varie interpretazioni differiscono notevolmente, a differenza che per i classici della musica occidentale. I tre movimenti jo, ha, kyu (introduzione, sviluppo in varie direzioni, conclusione precipitata) vengono spesso applicati a tratti particolari o a strutture più estese; questa distinzione ternaria risulta utile per la comprensione dell’articolazione della musica giapponese e in particolare di quella che accompagna il teatro del No.
Tra il Secolo XVI e il Secolo XIX, si assiste a una significativa crescita delle forme musicali popolari, in seguito all’estensione delle attività mercantili. Nel campo della musica strumentale, la letteratura per il koto si rinnova e i repertori della scuola Ikuta e Yamada diventano gli stili dominanti. La musica proveniente dal koto è combinata con lo shakuachi, flauto dritto di bambu, col kokyu, un liuto ad arco, e lo shamisen, liuto a pizzico di tre corde, per l’esecuzione di musica da camera (sanyoku). Le composizioni contenevano una linea vocale, ma un repertorio solistico di koto si sviluppò nella cosiddetta forma danmono, in cui le variazioni (dan) generalmente di 104 battute sono costituite a partire da una idea melodica di base.
Come nella musica cinese, la musica giapponese è binaria, costruita su un ritmo doppio, ma con frasi di lunghezza irregolari (cinque o sette misure), mentre quelle della musica cinese sono più regolari. Il ritmo è molto simile a quello della musica araba, balinese, javanese o hindustana, il che significa che è costituito da una sensazione di pulsazione, piuttosto che da una scansione regolare del tempo tramite battiti.
Per lo più monofonica, come tutta la musica orientale, include alcuni elementi di polifonia, come il ritmo delle percussioni, marcatamente indipendente, quando non opposto, contrario a quello delle melodie vocali o strumentali. In maniera simile la musica per voce e koto è caratterizzata da un trattamento eterofonico, molto spesso tramite una peculiare tecnica di anticipazione: lo strumento suona le note chiave della melodia vocale una ottava sotto prima che compaia la voce, e viceversa. Le note armoniche sul koto sono usate con moderazione.
Lo shakuachi è uno strumento rilevante anche per il suo repertorio solistico: è possibile creare il massimo effetto attraverso la accurata manipolazione di un materiale assai ridotto. La tensione musicale viene creata principalmente attraverso l’interruzione della linea melodica sul suono che si trova appena sopra o sotto il suono centrale o la sua quinta: l’attesa della soluzione di un tale passaggio coinvolge nell’ascolto, così come la consapevolezza delle progressioni armoniche o dello sviluppo tematico nella musica occidentale, o delle formule ritmiche del tamburo nel dramma No.
Una delle maggiori fucine di nuovi generi musicali furono i ‘quartieri del piacere’ nelle città del periodo Tokugawa o Edo (1603-1868), in cui le gheishe intrattenevano i clienti. Kouta e hauta, due dei generi lirici più suonati, si ascoltano ancora oggi. Combinandoli con lo joruri, lo stile narrativo drammatico del teatro dei burattini iniziato da Yakemoto Gidayu (1651-1714), si sviluppò il teatro kabuki a partire dal secolo XVIII,;combinando queste due tradizioni con la pratica strumentale di insieme del teatro No (lo hayashi) e i suoi nuovi generi shamisen, si dette vita a un nuovo stile della musica giapponese.
Attualmente il kabuki utilizza tre generi di musica: un genere narrativo, una musica fornita da un complesso presente sulla scena (debayashi), e quella eseguita da un gruppo fuori scena (geza). Ogni genere della musica per shamisen usa voci diverse e strumenti diversi; i vari generi sono così riconoscibili nell’esecuzione. Nel corso del sec XIX i vari strumenti si svilupparono in repertori concertistici, e attualmente è possibile sentirli in teatri sale da concerto.
Il Geza (musica fuori scena) è un repertorio per shamisen o combinazioni di percussioni il cui scopo è situare la scena in rapporto al luogo, al tempo, all’atmosfera, all’ora del giorno o al carattere dei personaggi. Nella formula del tamburo del kabuki può esser presente la formula stereotipata del No, ma anche quella più vivace dello Shamisen.
L’uso delle scale yo e in nel periodo Edo riflette l’approccio più specificamente indigeno alla musica di quel tempo, che i moderni teorici giapponesi considerano distinguendo quattro tetracordi di base: minyo, miyako, ritsu, ryuku. Ognuno è contenuto nell’ambito di una quarta giusta, all’interno della quale si trova un differente suono intermedio; quando le melodie usate diventano tetracordi ascendenti e discendenti, da queste strutture nascono scale di sette suoni. Il sistema tetracordale permette di interpretare le modulazioni melodiche anche quando sono disponibili pochi altri rifermimenti.
Col periodo Meiji (1868-1912) si intensificano i rapporti culturali e commerciali con l’estero. Durante questo processo di modernizzazione, la cultura musicale tradizionale soffrì innanzitutto della perdita del controllo economico su di essa da parte del sistema corporativo. La prima irruzione della musica occidentale avvenne attraverso le bande militari e il nuovo sistema di istruzione pubblica: solo i diplomati in musica occidentale entrarono nel sistema di insegnamento, così fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale la musica tradizionale venne esclusa dalla scuola.
La musica popolare presenta una situazione più varia e mobile. Il più conosciuto esponente della nuova espressione della musica tradizionale giapponese fu il suonatore di koto Miyagi Michio, mentre Yamada Kosaku fu il principale fautore della creazione di una opera mista orientale-occidentale nella musica lirica e per orchestra. Dal 1950 la scena musicale giapponese si è popolata di un numero sempre maggiore di compositori, quali Toru Takemitsu, che ha creato una estetica giapponese senza ricorrere a uno specifico stile tradizionale.
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