Thanksgiving is a national holiday in the USA and it's on the fourth thursday of november. It remenber when a group of english people arrived in the northern America on a ship called "The Mayflower" in 1620.
venerdì 7 giugno 2013
THANKSGIVING DAY
giovedì 16 maggio 2013
Il Netiqette
La Netiquette è un insieme di regole che disciplinano il comportamento di un utente di Internet nel rapportarsi agli altri utenti. Il rispetto della netiquette non è imposto da alcuna legge. Sotto un aspetto giuridico, la netiquette è spesso richiamata nei contratti di fornitura di servizi di accesso da parte dei provider.
1. Quando si arriva in un nuovo newsgroup, forum o in una nuova lista di distribuzione via posta elettronica (mailing list), è bene leggere i messaggi che vi circolano per almeno due settimane prima di inviare propri messaggi in giro per il mondo: in tale modo ci si rende conto dell'argomento e del metodo con cui lo si tratta in tale comunità.
2. Leggere sempre le FAQ (Frequently Asked Questions) relative all'argomento trattato prima di inviare nuove domande.
3. Se si manda un messaggio, è bene che esso sia sintetico e descriva in modo chiaro e diretto il problema.
4. Non usare i caratteri tutti in maiuscolo nel titolo o nel testo dei tuoi messaggi, nella rete questo comportamento equivale ad "urlare" ed è altamente disdicevole.
5. Non divagare rispetto all'argomento del newsgroup o della lista di distribuzione; anche se talvolta questo comportamento è accettato o almeno tollerato aggiungendo il tag [OT] (cioè Off Topic che significa "fuori argomento") nell'oggetto del proprio messaggio.
6. Se si risponde ad un messaggio, evidenziare i passaggi rilevanti del messaggio originario, allo scopo di facilitare la comprensione da parte di coloro che non lo hanno letto, ma non riportare mai sistematicamente l'intero messaggio originale. Fare questo, in gergo, si dice Quotare.
7. Non condurre "guerre di opinione" sulla rete a colpi di messaggi e contromessaggi: se ci sono diatribe personali, è meglio risolverle via posta elettronica in corrispondenza privata tra gli interessati.
8. Non pubblicare messaggi stupidi o che semplicemente prendono le parti dell'uno o dell'altro fra i contendenti in una discussione.
9. Non pubblicare mai, senza l'esplicito permesso dell'autore, il contenuto di messaggi di posta elettronica o privati.
10. Non iscriversi allo stesso gruppo con più nicknames e/o profili (morphing): in molti gruppi è considerato un comportamento riprovevole in quanto genera il sospetto che si tenti di ingannare gli altri utenti sulla propria vera identità.
11. Non inviare tramite posta elettronica messaggi pubblicitari o comunicazioni che non siano stati sollecitati in modo esplicito.
12. Non essere intolleranti con chi commetta errori sintattici o grammaticali. Chi scrive è comunque tenuto a migliorare il proprio linguaggio in modo da risultare comprensibile alla collettività.
La netiquette è fissata in una forma definitiva dall'ottobre 1995 con il documento RFC 1855 (traduzione ITA).
Regole più importanti:
1. Quando si arriva in un nuovo newsgroup, forum o in una nuova lista di distribuzione via posta elettronica (mailing list), è bene leggere i messaggi che vi circolano per almeno due settimane prima di inviare propri messaggi in giro per il mondo: in tale modo ci si rende conto dell'argomento e del metodo con cui lo si tratta in tale comunità.
2. Leggere sempre le FAQ (Frequently Asked Questions) relative all'argomento trattato prima di inviare nuove domande.
3. Se si manda un messaggio, è bene che esso sia sintetico e descriva in modo chiaro e diretto il problema.
4. Non usare i caratteri tutti in maiuscolo nel titolo o nel testo dei tuoi messaggi, nella rete questo comportamento equivale ad "urlare" ed è altamente disdicevole.
5. Non divagare rispetto all'argomento del newsgroup o della lista di distribuzione; anche se talvolta questo comportamento è accettato o almeno tollerato aggiungendo il tag [OT] (cioè Off Topic che significa "fuori argomento") nell'oggetto del proprio messaggio.
6. Se si risponde ad un messaggio, evidenziare i passaggi rilevanti del messaggio originario, allo scopo di facilitare la comprensione da parte di coloro che non lo hanno letto, ma non riportare mai sistematicamente l'intero messaggio originale. Fare questo, in gergo, si dice Quotare.
7. Non condurre "guerre di opinione" sulla rete a colpi di messaggi e contromessaggi: se ci sono diatribe personali, è meglio risolverle via posta elettronica in corrispondenza privata tra gli interessati.
8. Non pubblicare messaggi stupidi o che semplicemente prendono le parti dell'uno o dell'altro fra i contendenti in una discussione.
9. Non pubblicare mai, senza l'esplicito permesso dell'autore, il contenuto di messaggi di posta elettronica o privati.
10. Non iscriversi allo stesso gruppo con più nicknames e/o profili (morphing): in molti gruppi è considerato un comportamento riprovevole in quanto genera il sospetto che si tenti di ingannare gli altri utenti sulla propria vera identità.
11. Non inviare tramite posta elettronica messaggi pubblicitari o comunicazioni che non siano stati sollecitati in modo esplicito.
12. Non essere intolleranti con chi commetta errori sintattici o grammaticali. Chi scrive è comunque tenuto a migliorare il proprio linguaggio in modo da risultare comprensibile alla collettività.
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martedì 14 maggio 2013
Cesare Cremonini
CESARE CREMONINI nasce a Bologna il 27 marzo 1980, figlio di Carla e Giovanni Cremonini, professoressa di lettere lei, e medico lui. Fin da piccolo inizia a studiare pianoforte (a 6 anni prende la sua prima lezione), arrivando dopo alcuni anni a tenere piccoli concerti di musica classica. A 11 anni riceve in regalo il primo disco dei Queen, gruppo per il quale tutta la vita sarà grande fan e che lo porta ad abbandonare lentamente la passione per la musica classica per dedicarsi totalmente al mondo del pop/rock. La sua particolare attitudine per la scrittura si manifesta invece verso i 14 anni, annotando brevi racconti, poesie e canzoni su un quaderno.
Nel 1996, assieme ad alcuni amici e compagni di classe, costituisce un gruppo chiamato “Senza Filtro”, con i quali si esibisce in feste e locali del circuito bolognese, proponendo un repertorio originale. Alla fine del 1996 incontra casualmente Walter Mameli, che da allora diventa il suo produttore artistico e manager.
giovedì 2 maggio 2013
MICROSOFT OFFICE ACCESS
Microsoft Access è software per la gestione di basi di dati di tipo relazionale (DBMS) che integra nativamente un modulo per lo sviluppo rapido di applicativi (RAD ,Rapid Application Development) gestionali di piccole/medie dimensioni.
Microsoft Access è un programma semplice e potente utilizzabile in primo luogo per archiviare e gestire dati; la sua flessibilità è comunque notevole, e i campi di utilizzo molteplici: dalla semplice creazione di una rubrica elettronica per la gestione e l'archiviazione di indirizzi e numeri telefonici, alla gestione delle vendite, del parco clienti o fornitori, dall'aggiornamento e gestione di un magazzino alla gestione della contabilità o all'analisi di dati statistici, dalla creazione di un qualsiasi tipo di archivio con la possibilità di inserirvi anche immagini, foto o suoni alla realizzazione e all'aggiornamento di schede informative utilizzabili, ad esempio, per un progetto di ricerca, e così via.
Una tabella è un insieme di informazioni organizzate sotto forma di righe, che nella terminologia dei database costituiscono i record, e colonne denominate campi. La figura 1 presenta una tabella di esempio contenente nomi e indirizzi per illustrare la definizione di campo e di record. I nomi dei campi nella parte superiore della tabella forniscono una breve descrizione del tipo di informazione contenuta nel campo stesso.
Occorre quindi tenere presente che, nel caso in cui i dati non siano già in forma tabulare è necessario organizzarli in questa forma per poterli immettere in Access.
Una query corrisponde all'interrogazione di una data base che consente di ricercare e di isolare specifici record contenuti in una o più tabelle. L'utilizzo delle query è molto ampio: ricerca e stampa di record specifici, realizzazione di calcoli soltanto di determinati record, ordinamento dei dati e così via.
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martedì 23 aprile 2013
Musica 'leggera'
La musica leggera, al contrario di quella classica, ha uno scopo ricreativo. Essa si basa sulla canzone che deriva dalla romanza dell’800(canzone da salotto di carattere sentimentale, generalmente accompagnata dal pianoforte).
Nelle canzoni la melodia è breve e il testo è in genere di contesto sentimentale e non impegnativo, anche se vi sono state delle canzoni con testi di grande impegno.
Il principale interprete fu Elvis Presley. Nel xx secolo la musica è diventata un fenomeno di massa diffuso dalla radio, dalla televisione ed ecc.
Negli Stati Uniti si affermò il genere di protesta con Bob Dylan e Joan Baez (contro la guerra e le ingiustizie sociali). In Italia ricordiamo molti cantautori: Gino Paoli, Fabrizio de Andrè, Lucio Battisti, i quali portarono una ventata di rinnovamento sia nei testi sia nella musica.
Nelle canzoni la melodia è breve e il testo è in genere di contesto sentimentale e non impegnativo, anche se vi sono state delle canzoni con testi di grande impegno.
Il successo di una canzone e del cantante che lancia è in genere passeggero e questo è dovuto anche alla grande produzione musicale e alle esigenze del mercato discografico.
Negli anni’50, negli Stati Uniti si diffuse il Rock ‘n Roll (dondola e rotola), con cui i giovani affermavano la loro voglia di vivere, di libertà, di anti conformità.
Il principale interprete fu Elvis Presley. Nel xx secolo la musica è diventata un fenomeno di massa diffuso dalla radio, dalla televisione ed ecc.
Dopo la metà del ‘900 i giovani anticonformisti, spinti dal desiderio di libertà, rifiutavano la società consumistica perseguendo ideali di giustizia e di non violenza, lottarono per un mondo diverso e diedero vita a nuovi linguaggi musicali.
Negli anni ’70 , in Inghilterra esplose, il genere beat, con l’impiego delle chitarre amplificate e i famosi complessi come i Beatles ed i Rolling Stones, che rivoluzionarono la musica leggera internazionale.
Negli Stati Uniti si affermò il genere di protesta con Bob Dylan e Joan Baez (contro la guerra e le ingiustizie sociali). In Italia ricordiamo molti cantautori: Gino Paoli, Fabrizio de Andrè, Lucio Battisti, i quali portarono una ventata di rinnovamento sia nei testi sia nella musica.
Tra gli altri cantautori ricordiamo Lucio Dalla, Francesco De Gregori, Angelo Branduardi, Edoardo Bennato, Claudio Baglioni, Vasco Rossi, Pino Daniele e Zucchero.
La musica del Giappone
In base alle testimonianze archeologiche, esisteva nell’antico Giappone una prassi musicale dal III secolo a.C. I primi incontri con musiche straniere o continentali sono con quelle che provengono dalla Corea (435 d.C.) e con lo shomyo, il canto buddista. Durante il periodo Nara (710-748) si stabilizzano i fondamenti teorici, attraverso l’adattamento di pratiche religiose e cortigiane straniere e la prima elaborazione dell’alfabeto giapponese, sul modello di quello cinese.
L’insieme di pratiche della religione giapponese antica viene definita Shintoismo – da shin-to, “via degli dèi” – a partire dal VI secolo d.C. per distinguerlo dalla religione buddista, che iniziava all’epoca a infiltrarsi nella cultura religiosa locale fino a fondersi con essa, e dall’influenza di confucianesimo e del taoismo. Fino a quel momento conglomerato di credenze e di divinità locali (dèi della natura, spiriti dei defunti, per cui venivano compiuti riti per placarne le forze) senza nessuna tendenza unificatrice, è basata sull’adorazione di divinità che sono spiriti naturali o presenze spirituali (kami), guardiani di un luogo particolare, oppure specifico oggetto o elemento naturale.
La musica classica giapponese è basata su due modi: ryo e ritsu. La musica di corte è chiamata Gagaku (“musica elegante”), e presenta gli stessi caratteri utilizzati dalla musica imperiale in Cina (yen yueh) e in Corea (aak). I generi della musica giapponese sono classificabili secondo due criteri: le origini storiche o la prassi esecutiva.
In base alla classificazione per periodi abbiamo due generi principali: il togaku, originario dell’India e della Cina, e il komagaku, che proviene invece dalla Corea e dalla Manciuria. Essi restano, non ostante la presenza di repertori di altre regioni come il Sud Est asiatico, e di musiche autoctone, le due nozioni di base per ogni analisi del materiale e delle prassi esecutive.
Termini fondamentali dell’esecuzione del gagaku sono il bugaku, musica che accompagna la danza, e il kangen, musica puramente strumentale. La musica vocale si individua attraverso il genere specifico del brano eseguito. La strumentazione consta di hiciriki, ad ancia doppia, e sho, organo a bocca di 17 canne di bambu raccolte in un serbatoio d’aria. Lo sho produce un grappolo di suoni, sopra le note fondamentali della melodia, benché in origine esse potessero essere prodotte separatamente.
Il ryuteki è la melodia eseguita dal flauto nel togaku, mentre nel komogaku essa è chiamata komabue. Se nel gagaku viene usata una melodia scintoista, si usa il flauto kagurabue, che differisce per dimensioni e intonazione. I principali strumenti a percussione sono il gaku-daiko, un grande tamburo a barile, e il shoko, un piccolo gong. Colui che dirige nel togaku usa un piccolo tamburo a barile (kakko) con due bacchette, nel komagaku un tamburo più grande a forma di clessidra (san no tsuzumi), percosso su un solo lato con una bacchetta.
Cetra su tavola e liuto eseguono solo brevi melodie stereotipe che hanno unicamente la funzione di scandire il tempo, come per il tamburo grande e il piccolo gong. La più antica scrittura musicale giapponese arrivata a noi è costituita da un frammento di notazione per liuto, ritrovato nella camera del tesoro Shosoin (VIII sec d.C.), che contiene anche 45 strumenti che riflettono la magnificenza e il gusto continentale dell’antica musica giapponese.
Col XIII secolo le cronache di corte e le novelle si uniscono a un numero crescente di partiture, molti titoli delle quali possono essere fatti risalire al patrimonio dell’Asia orientale, mentre altri mostrano il sorgere di uno stile compositivo originale. La notazione gagaku consta in primo luogo di una serie di “aiuti” per la memoria dell’esecutore, dato che la musica in Giappone viene generalmente insegnata come un fatto sonoro piuttosto che grafico.
L’allievo impara per via orale, attraverso l’insegnamento di un maestro, prima di ‘leggere’ la musica. Il modo in cui viene letta attualmente la musica gagaku può differire notevolmente dalla interpretazione originale.
Il teatro No, che si sviluppa nei secoli XII e XV, consta di narrazioni epiche e drammi. Le rappresentazioni sono accompagnate dal liuto biwa, e si tengono sui palcoscenici dei sacrari shinto o nei templi buddisti. Kannami Kiyotsugi (1333-83) e suo figlio Zeami Motokiyo (1363-1444) fecero evolvere tali prassi fino a far diventare il teatro No modello dello stile teatrale giapponese assieme al teatro popolare (geino).
Il canto è intonato dagli attori principali (shite o waki) in un coro all’unisono (ji) e nel suono di tre tamburi e un flauto, nel loro insieme noti come hayashi. La musica vocale è detta utai o yokyoku. Si basa su modelli buddisti, sebbene i risultati musicali siano sensibilmente differenti dai canti religiosi buddisti. Presentano regole tonali e melodiche rigorose: l’improvvisazione non è ammessa, benché le diverse scuole interpretino le stesse composizioni in modi diversi e impieghino stili vocali differenti.
Per sottolineare i passaggi tra le sezioni e definirne l’atmosfera, e spesso accompagnare le danze, viene utilizzato il flauto hayashi: quattro melodie stereotipe di otto battute, formatesi durante la lunga evoluzione del teatro No e arrangiate nel modo appropriato alla singola danza; si aggiungono particolari forme melodiche che servono a identificare le danze o le loro sezioni (dan). Il tamburo taiko accompagna solo la danza. Il suo repertorio è costituito di formule stereotipe che di solito si eseguono secondo un ordine prestabilito, consentendo allo spettatore di intuire gli sviluppi dell’azione.
Un simile sistema organizzativo hanno anche il piccolo kotsozumi e il grande otsuzumi. Oltre a accompagnare la danza, questi due strumenti rappresentano l’essenziale sostegno di gran parte della musica vocale. Per assolvere questa funzione, gli esecutori devono conoscere l’intero testo del brano eseguito, così da poter inserire le adeguate formule ritmiche nel contesto della distribuzione sillabica dell’esecuzione.
Anche se l’improvvisazione non è pratica comune, le varie interpretazioni differiscono notevolmente, a differenza che per i classici della musica occidentale. I tre movimenti jo, ha, kyu (introduzione, sviluppo in varie direzioni, conclusione precipitata) vengono spesso applicati a tratti particolari o a strutture più estese; questa distinzione ternaria risulta utile per la comprensione dell’articolazione della musica giapponese e in particolare di quella che accompagna il teatro del No.
Tra il Secolo XVI e il Secolo XIX, si assiste a una significativa crescita delle forme musicali popolari, in seguito all’estensione delle attività mercantili. Nel campo della musica strumentale, la letteratura per il koto si rinnova e i repertori della scuola Ikuta e Yamada diventano gli stili dominanti. La musica proveniente dal koto è combinata con lo shakuachi, flauto dritto di bambu, col kokyu, un liuto ad arco, e lo shamisen, liuto a pizzico di tre corde, per l’esecuzione di musica da camera (sanyoku). Le composizioni contenevano una linea vocale, ma un repertorio solistico di koto si sviluppò nella cosiddetta forma danmono, in cui le variazioni (dan) generalmente di 104 battute sono costituite a partire da una idea melodica di base.
Come nella musica cinese, la musica giapponese è binaria, costruita su un ritmo doppio, ma con frasi di lunghezza irregolari (cinque o sette misure), mentre quelle della musica cinese sono più regolari. Il ritmo è molto simile a quello della musica araba, balinese, javanese o hindustana, il che significa che è costituito da una sensazione di pulsazione, piuttosto che da una scansione regolare del tempo tramite battiti.
Per lo più monofonica, come tutta la musica orientale, include alcuni elementi di polifonia, come il ritmo delle percussioni, marcatamente indipendente, quando non opposto, contrario a quello delle melodie vocali o strumentali. In maniera simile la musica per voce e koto è caratterizzata da un trattamento eterofonico, molto spesso tramite una peculiare tecnica di anticipazione: lo strumento suona le note chiave della melodia vocale una ottava sotto prima che compaia la voce, e viceversa. Le note armoniche sul koto sono usate con moderazione.
Lo shakuachi è uno strumento rilevante anche per il suo repertorio solistico: è possibile creare il massimo effetto attraverso la accurata manipolazione di un materiale assai ridotto. La tensione musicale viene creata principalmente attraverso l’interruzione della linea melodica sul suono che si trova appena sopra o sotto il suono centrale o la sua quinta: l’attesa della soluzione di un tale passaggio coinvolge nell’ascolto, così come la consapevolezza delle progressioni armoniche o dello sviluppo tematico nella musica occidentale, o delle formule ritmiche del tamburo nel dramma No.
Una delle maggiori fucine di nuovi generi musicali furono i ‘quartieri del piacere’ nelle città del periodo Tokugawa o Edo (1603-1868), in cui le gheishe intrattenevano i clienti. Kouta e hauta, due dei generi lirici più suonati, si ascoltano ancora oggi. Combinandoli con lo joruri, lo stile narrativo drammatico del teatro dei burattini iniziato da Yakemoto Gidayu (1651-1714), si sviluppò il teatro kabuki a partire dal secolo XVIII,;combinando queste due tradizioni con la pratica strumentale di insieme del teatro No (lo hayashi) e i suoi nuovi generi shamisen, si dette vita a un nuovo stile della musica giapponese.
Attualmente il kabuki utilizza tre generi di musica: un genere narrativo, una musica fornita da un complesso presente sulla scena (debayashi), e quella eseguita da un gruppo fuori scena (geza). Ogni genere della musica per shamisen usa voci diverse e strumenti diversi; i vari generi sono così riconoscibili nell’esecuzione. Nel corso del sec XIX i vari strumenti si svilupparono in repertori concertistici, e attualmente è possibile sentirli in teatri sale da concerto.
Il Geza (musica fuori scena) è un repertorio per shamisen o combinazioni di percussioni il cui scopo è situare la scena in rapporto al luogo, al tempo, all’atmosfera, all’ora del giorno o al carattere dei personaggi. Nella formula del tamburo del kabuki può esser presente la formula stereotipata del No, ma anche quella più vivace dello Shamisen.
L’uso delle scale yo e in nel periodo Edo riflette l’approccio più specificamente indigeno alla musica di quel tempo, che i moderni teorici giapponesi considerano distinguendo quattro tetracordi di base: minyo, miyako, ritsu, ryuku. Ognuno è contenuto nell’ambito di una quarta giusta, all’interno della quale si trova un differente suono intermedio; quando le melodie usate diventano tetracordi ascendenti e discendenti, da queste strutture nascono scale di sette suoni. Il sistema tetracordale permette di interpretare le modulazioni melodiche anche quando sono disponibili pochi altri rifermimenti.
Col periodo Meiji (1868-1912) si intensificano i rapporti culturali e commerciali con l’estero. Durante questo processo di modernizzazione, la cultura musicale tradizionale soffrì innanzitutto della perdita del controllo economico su di essa da parte del sistema corporativo. La prima irruzione della musica occidentale avvenne attraverso le bande militari e il nuovo sistema di istruzione pubblica: solo i diplomati in musica occidentale entrarono nel sistema di insegnamento, così fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale la musica tradizionale venne esclusa dalla scuola.
La musica popolare presenta una situazione più varia e mobile. Il più conosciuto esponente della nuova espressione della musica tradizionale giapponese fu il suonatore di koto Miyagi Michio, mentre Yamada Kosaku fu il principale fautore della creazione di una opera mista orientale-occidentale nella musica lirica e per orchestra. Dal 1950 la scena musicale giapponese si è popolata di un numero sempre maggiore di compositori, quali Toru Takemitsu, che ha creato una estetica giapponese senza ricorrere a uno specifico stile tradizionale.
L’insieme di pratiche della religione giapponese antica viene definita Shintoismo – da shin-to, “via degli dèi” – a partire dal VI secolo d.C. per distinguerlo dalla religione buddista, che iniziava all’epoca a infiltrarsi nella cultura religiosa locale fino a fondersi con essa, e dall’influenza di confucianesimo e del taoismo. Fino a quel momento conglomerato di credenze e di divinità locali (dèi della natura, spiriti dei defunti, per cui venivano compiuti riti per placarne le forze) senza nessuna tendenza unificatrice, è basata sull’adorazione di divinità che sono spiriti naturali o presenze spirituali (kami), guardiani di un luogo particolare, oppure specifico oggetto o elemento naturale.
La musica classica giapponese è basata su due modi: ryo e ritsu. La musica di corte è chiamata Gagaku (“musica elegante”), e presenta gli stessi caratteri utilizzati dalla musica imperiale in Cina (yen yueh) e in Corea (aak). I generi della musica giapponese sono classificabili secondo due criteri: le origini storiche o la prassi esecutiva.
In base alla classificazione per periodi abbiamo due generi principali: il togaku, originario dell’India e della Cina, e il komagaku, che proviene invece dalla Corea e dalla Manciuria. Essi restano, non ostante la presenza di repertori di altre regioni come il Sud Est asiatico, e di musiche autoctone, le due nozioni di base per ogni analisi del materiale e delle prassi esecutive.
Termini fondamentali dell’esecuzione del gagaku sono il bugaku, musica che accompagna la danza, e il kangen, musica puramente strumentale. La musica vocale si individua attraverso il genere specifico del brano eseguito. La strumentazione consta di hiciriki, ad ancia doppia, e sho, organo a bocca di 17 canne di bambu raccolte in un serbatoio d’aria. Lo sho produce un grappolo di suoni, sopra le note fondamentali della melodia, benché in origine esse potessero essere prodotte separatamente.
Il ryuteki è la melodia eseguita dal flauto nel togaku, mentre nel komogaku essa è chiamata komabue. Se nel gagaku viene usata una melodia scintoista, si usa il flauto kagurabue, che differisce per dimensioni e intonazione. I principali strumenti a percussione sono il gaku-daiko, un grande tamburo a barile, e il shoko, un piccolo gong. Colui che dirige nel togaku usa un piccolo tamburo a barile (kakko) con due bacchette, nel komagaku un tamburo più grande a forma di clessidra (san no tsuzumi), percosso su un solo lato con una bacchetta.
Cetra su tavola e liuto eseguono solo brevi melodie stereotipe che hanno unicamente la funzione di scandire il tempo, come per il tamburo grande e il piccolo gong. La più antica scrittura musicale giapponese arrivata a noi è costituita da un frammento di notazione per liuto, ritrovato nella camera del tesoro Shosoin (VIII sec d.C.), che contiene anche 45 strumenti che riflettono la magnificenza e il gusto continentale dell’antica musica giapponese.
Col XIII secolo le cronache di corte e le novelle si uniscono a un numero crescente di partiture, molti titoli delle quali possono essere fatti risalire al patrimonio dell’Asia orientale, mentre altri mostrano il sorgere di uno stile compositivo originale. La notazione gagaku consta in primo luogo di una serie di “aiuti” per la memoria dell’esecutore, dato che la musica in Giappone viene generalmente insegnata come un fatto sonoro piuttosto che grafico.
L’allievo impara per via orale, attraverso l’insegnamento di un maestro, prima di ‘leggere’ la musica. Il modo in cui viene letta attualmente la musica gagaku può differire notevolmente dalla interpretazione originale.
Il teatro No, che si sviluppa nei secoli XII e XV, consta di narrazioni epiche e drammi. Le rappresentazioni sono accompagnate dal liuto biwa, e si tengono sui palcoscenici dei sacrari shinto o nei templi buddisti. Kannami Kiyotsugi (1333-83) e suo figlio Zeami Motokiyo (1363-1444) fecero evolvere tali prassi fino a far diventare il teatro No modello dello stile teatrale giapponese assieme al teatro popolare (geino).
Il canto è intonato dagli attori principali (shite o waki) in un coro all’unisono (ji) e nel suono di tre tamburi e un flauto, nel loro insieme noti come hayashi. La musica vocale è detta utai o yokyoku. Si basa su modelli buddisti, sebbene i risultati musicali siano sensibilmente differenti dai canti religiosi buddisti. Presentano regole tonali e melodiche rigorose: l’improvvisazione non è ammessa, benché le diverse scuole interpretino le stesse composizioni in modi diversi e impieghino stili vocali differenti.
Per sottolineare i passaggi tra le sezioni e definirne l’atmosfera, e spesso accompagnare le danze, viene utilizzato il flauto hayashi: quattro melodie stereotipe di otto battute, formatesi durante la lunga evoluzione del teatro No e arrangiate nel modo appropriato alla singola danza; si aggiungono particolari forme melodiche che servono a identificare le danze o le loro sezioni (dan). Il tamburo taiko accompagna solo la danza. Il suo repertorio è costituito di formule stereotipe che di solito si eseguono secondo un ordine prestabilito, consentendo allo spettatore di intuire gli sviluppi dell’azione.
Un simile sistema organizzativo hanno anche il piccolo kotsozumi e il grande otsuzumi. Oltre a accompagnare la danza, questi due strumenti rappresentano l’essenziale sostegno di gran parte della musica vocale. Per assolvere questa funzione, gli esecutori devono conoscere l’intero testo del brano eseguito, così da poter inserire le adeguate formule ritmiche nel contesto della distribuzione sillabica dell’esecuzione.
Anche se l’improvvisazione non è pratica comune, le varie interpretazioni differiscono notevolmente, a differenza che per i classici della musica occidentale. I tre movimenti jo, ha, kyu (introduzione, sviluppo in varie direzioni, conclusione precipitata) vengono spesso applicati a tratti particolari o a strutture più estese; questa distinzione ternaria risulta utile per la comprensione dell’articolazione della musica giapponese e in particolare di quella che accompagna il teatro del No.
Tra il Secolo XVI e il Secolo XIX, si assiste a una significativa crescita delle forme musicali popolari, in seguito all’estensione delle attività mercantili. Nel campo della musica strumentale, la letteratura per il koto si rinnova e i repertori della scuola Ikuta e Yamada diventano gli stili dominanti. La musica proveniente dal koto è combinata con lo shakuachi, flauto dritto di bambu, col kokyu, un liuto ad arco, e lo shamisen, liuto a pizzico di tre corde, per l’esecuzione di musica da camera (sanyoku). Le composizioni contenevano una linea vocale, ma un repertorio solistico di koto si sviluppò nella cosiddetta forma danmono, in cui le variazioni (dan) generalmente di 104 battute sono costituite a partire da una idea melodica di base.
Come nella musica cinese, la musica giapponese è binaria, costruita su un ritmo doppio, ma con frasi di lunghezza irregolari (cinque o sette misure), mentre quelle della musica cinese sono più regolari. Il ritmo è molto simile a quello della musica araba, balinese, javanese o hindustana, il che significa che è costituito da una sensazione di pulsazione, piuttosto che da una scansione regolare del tempo tramite battiti.
Per lo più monofonica, come tutta la musica orientale, include alcuni elementi di polifonia, come il ritmo delle percussioni, marcatamente indipendente, quando non opposto, contrario a quello delle melodie vocali o strumentali. In maniera simile la musica per voce e koto è caratterizzata da un trattamento eterofonico, molto spesso tramite una peculiare tecnica di anticipazione: lo strumento suona le note chiave della melodia vocale una ottava sotto prima che compaia la voce, e viceversa. Le note armoniche sul koto sono usate con moderazione.
Lo shakuachi è uno strumento rilevante anche per il suo repertorio solistico: è possibile creare il massimo effetto attraverso la accurata manipolazione di un materiale assai ridotto. La tensione musicale viene creata principalmente attraverso l’interruzione della linea melodica sul suono che si trova appena sopra o sotto il suono centrale o la sua quinta: l’attesa della soluzione di un tale passaggio coinvolge nell’ascolto, così come la consapevolezza delle progressioni armoniche o dello sviluppo tematico nella musica occidentale, o delle formule ritmiche del tamburo nel dramma No.
Una delle maggiori fucine di nuovi generi musicali furono i ‘quartieri del piacere’ nelle città del periodo Tokugawa o Edo (1603-1868), in cui le gheishe intrattenevano i clienti. Kouta e hauta, due dei generi lirici più suonati, si ascoltano ancora oggi. Combinandoli con lo joruri, lo stile narrativo drammatico del teatro dei burattini iniziato da Yakemoto Gidayu (1651-1714), si sviluppò il teatro kabuki a partire dal secolo XVIII,;combinando queste due tradizioni con la pratica strumentale di insieme del teatro No (lo hayashi) e i suoi nuovi generi shamisen, si dette vita a un nuovo stile della musica giapponese.
Attualmente il kabuki utilizza tre generi di musica: un genere narrativo, una musica fornita da un complesso presente sulla scena (debayashi), e quella eseguita da un gruppo fuori scena (geza). Ogni genere della musica per shamisen usa voci diverse e strumenti diversi; i vari generi sono così riconoscibili nell’esecuzione. Nel corso del sec XIX i vari strumenti si svilupparono in repertori concertistici, e attualmente è possibile sentirli in teatri sale da concerto.
Il Geza (musica fuori scena) è un repertorio per shamisen o combinazioni di percussioni il cui scopo è situare la scena in rapporto al luogo, al tempo, all’atmosfera, all’ora del giorno o al carattere dei personaggi. Nella formula del tamburo del kabuki può esser presente la formula stereotipata del No, ma anche quella più vivace dello Shamisen.
L’uso delle scale yo e in nel periodo Edo riflette l’approccio più specificamente indigeno alla musica di quel tempo, che i moderni teorici giapponesi considerano distinguendo quattro tetracordi di base: minyo, miyako, ritsu, ryuku. Ognuno è contenuto nell’ambito di una quarta giusta, all’interno della quale si trova un differente suono intermedio; quando le melodie usate diventano tetracordi ascendenti e discendenti, da queste strutture nascono scale di sette suoni. Il sistema tetracordale permette di interpretare le modulazioni melodiche anche quando sono disponibili pochi altri rifermimenti.
Col periodo Meiji (1868-1912) si intensificano i rapporti culturali e commerciali con l’estero. Durante questo processo di modernizzazione, la cultura musicale tradizionale soffrì innanzitutto della perdita del controllo economico su di essa da parte del sistema corporativo. La prima irruzione della musica occidentale avvenne attraverso le bande militari e il nuovo sistema di istruzione pubblica: solo i diplomati in musica occidentale entrarono nel sistema di insegnamento, così fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale la musica tradizionale venne esclusa dalla scuola.
La musica popolare presenta una situazione più varia e mobile. Il più conosciuto esponente della nuova espressione della musica tradizionale giapponese fu il suonatore di koto Miyagi Michio, mentre Yamada Kosaku fu il principale fautore della creazione di una opera mista orientale-occidentale nella musica lirica e per orchestra. Dal 1950 la scena musicale giapponese si è popolata di un numero sempre maggiore di compositori, quali Toru Takemitsu, che ha creato una estetica giapponese senza ricorrere a uno specifico stile tradizionale.
La musica della Cina
Nell’antica Cina la musica era considerata arte destinata a perfezionare l’educazione dei giovani. La musica non solo aveva funzione didattica ma veniva investita di significati metafisici; era infatti considerata parte di un complesso sistema cosmologico e dalla sua perfetta esecuzione si faceva derivare il delicato equilibrio fra il Cielo e la Terra, e quindi, per estensione, la stabilità dell’Impero.
Nel Liji "Memoriale dei riti", il sistema musicale cinese viene spiegato in base a 5 gradi fondamentali denominati gong (palazzo), shang (deliberazione), jiao (corno), zhi (prova), yu (ali) e viene fatto corrispondere ad altri "gruppi di cinque", fattori costitutivi e caratterizzanti la vita cosmica e umana. Così, per esempio, secondo tale sistema filosofico-musicale, la nota fondamentale gong (fa) corrisponde all’elemento terra, al punto cardinale centro, al colore giallo, al sapore dolce, al viscere cuore, al numero cinque, alla funzione imperatore ecc. Analogamente la nota shang (sol) rappresenta i ministri; la nota jiao (la) rappresenta il popolo; la nota zhi (do) e yu (re) rappresentano rispettivamente i servizi pubblici e l’insieme dei prodotti; oltre, naturalmente, a ulteriori parallelismi tra ciascuna nota e un elemento, un punto cardinale ecc.
La valenza magica attribuita ai suoni, le loro correlazioni cosmologiche e filosofiche possono spiegare certe peculiarità della musica cinese tradizionale; la sua lentezza e il suo mettere in evidenza la materialità di ciascun suono, come fonte di meditazione filosofica.
Il do, come dominante in una composizione musicale, stava a indicare che il pezzo era stato composto per cerimonie sacrificali dedicate al Cielo, mentre la nota re veniva impiegata nelle celebrazioni che riguardavano gli antenati e la primavera. Il sol poteva riferirsi soltanto a brani che concernevano la terra, mentre il la celebrava l’equinozio d’autunno, l’imperatrice e la luna.
Il sistema musicale cinese e i vari problemi tecnici a esso inerenti (temperamento della gamma, natura dei modi ecc.) è stato spiegato in diversi trattai, taluni molto antichi. Alcuni di essi come il Lülü Xinshuo (Nuovo trattato dei Lü, sec. XII) oppure il Lülü Qingyi (Il trattato dei Lü, sec. XVI), descrivono la determinazione del suono fondamentale da cui deriverebbero tutti gli altri. Il suono fondamentale è prodotto da una specie di flauto, ricavato da una canna di bambù lunga circa nove pollici; l’altezza del suono secondo alcuni studiosi si avvicinerebbe al mi3, secondo altri al Fa3. Da esso hanno origine, per progressione delle quinte, gli altri suoni (lü) che sono complessivamente 12, con nomi anch’essi avocanti per lo più un parallelismo con il mondo naturale. Dalla scala dei lü ha origine la scala pentatonica, base del sistema musicale cinese. Verso il 1000 a.C. entrò in uso anche una scala eptatonica, che si formò aggiungendo due note alla gamma pentatonica: il biangong e il bianzhi (bian=mutare). Ma la scala pentatonica fu sempre in Cina la più importante e la più usata (soprattutto per le musiche popolari), tanto da essere definita "cinese" per antonomasia. Trasportando sui ogni grado della scala dei lü la scala ottenuta partendo da ciascuna nota della gamma pentatonica, si ottengono, almeno teoricamente, 60 sistemi modali. Secondo la maggioranza degli studiosi, nell’antica musica tradizionale cinese non furono mai adoperati tutti quanti.
Nell’antica Cina, la musica ebbe un posto di notevole importanza, non solo nelle cerimonie religiose e civili ma anche nel ruolo educativo dei giovani. Nel "Memoriale dei riti" vi è un capitolo intero di notevole estensione sulla musica. Tra l’altro vi si afferma: "la musica nasce nel cuore dell’uomo. Quando il cuore è commosso da cose esterne, la sua emozione si traduce con il tono della voce".
Un noto proverbio cinese dice: "Se vuoi sapere se un Paese è ben governato, ascolta la musica". Leggendo i libri classici cinesi si può notare come la musica dei tempi leggendari appare divisa in due filoni orchestrali. Uno intimamente legato alla vita della corte imperiale con un’orchestra formata da Sheng (una specie di organo a bocca), da Qin (un salterio da tavola con 7 note) e altri strumenti per accompagnare il canto. Il secondo filone, invece, formato da complessi musicali con strumenti come tamburi, campanelli, cimbali che accompagnavano alcuni aspetti della vita religiosa e militare.
Sotto la dinastia Tang (618-907 d.C.), in conseguenza dei contatti avuti con i popoli dell’India, della Mongolia e del Tibet, il patrimonio strumentale e musicale cinese si arricchisce in modo notevole. Tuttavia solo con le dinastie Song del Nord e del Sud, la musica classica cinese raggiunge il suo apogeo. Nel periodo Ming (1368-1644), la musica strumentale, soprattutto nelle esecuzioni del Qin, raggiunge virtuosismi difficilmente superabili.
Dopo le tristi vicende della seconda guerra mondiale e la costituzione della Repubblica Popolare Cinese nel 1949 ad opera di Mao, l’interesse per la musica tradizionale è rinato.
Strumenti della musica tradizionale cinese
Gli strumenti musicali cinesi, alcuni con una storia di oltre tremila anni, si ritrovano, con piccole o grandi modifiche, in quasi tutti i Paesi dell’Asia meridionale e del Giappone. Presentiamo alcuni di questi strumenti che sono di uso comune sia nei concerti come nella musica di accompagnamento dell’Opera di Pechino o del teatro classico.
Strumenti ad arco
Nella musica popolare cinese esistono diversi strumenti cordofoni, cioè dotati di corde, classificati come "liuti ad arco". I liuti cinesi a differenza di quelli europei sono spesso puntuti: hanno una parte appuntita che sporge nella sezione inferiore della cassa e hanno un manico lungo.
Erhu: è il conosciutissimo violino a due corde, come dice il nome cinese. Ha una cassa di risonanza costruita in legno di sandalo rosso coperta solitamente con pelle di serpente o di altri rettili. Viene suonato con un arco diritto, molto simile a quello del nostro violino, fornito di crini di cavallo che vengono però inseriti sotto le corde dello strumento
Jinghu: un altro tipo di violino usato come strumento principale nella musica dell’Opera di Pechino. molto piccolo, quasi la metà dell’erhu, ha il risuonatore cilindrico rivestito di pelle di serpente o di rettile e il manico o collo, in bambù. Contrariamente al suo formato ridotto il Jinghu possiede un suono di volume sorprendente. Nell’Opera di Pechino ha la funzione di accompagnare il canto.
Sihu: violino identico nella struttura, nel materiale e nella forma all’erhu, eccetto il fatto di essere dotato di quattro corde invece di due.
Banhu (板胡, pinyin: bǎnhú) : fa parte della famiglia degli huqin. E' usato principalmente nella Cina settentrionale. Ban significa asse di legno e hu è l'abbreviazione di huqin.
Come i più conosciuti erhu e gaohu, il banhu ha due corde, viene tenuto verticalmente, e i crini passano tra le due corde. Il banhu differisce nella costruzione dall'erhu per il fatto che la cassa di risonanza è fatta in genere da una noce di cocco e invece di una pelle di serpente, comunemente usata per coprire la superficie degli strumenti huqin, il banhu usa una sottile lamina di legno.Il banhu è talvolta chiamato banghu, perché spesso usato nell'opera bangzi della Cina settentrionale.
Strumenti a pizzico
Appartengono alla famiglia dei cordofoni come i precedenti, ma vengono suonati non per mezzo di archetti ma pizzicando le corde con le dita o con il plettro.
Pipa: il più popolare e conosciuto tra i liuti a pizzico della musica cinese. Il manico è il prolungamento della stessa cassa di risonanza. Ha un fondo panciuto che ricorda i nostri liuti del Rinascimento ed è fornito di testatura, cioè di ponticelli che sorreggono quattro corde di seta (nelle versioni moderne di metallo argentato) sul manico e sulla tavola. Quattro sottili piroli, ai lati nella parte alta del manico, mantengono tese le corde.
Yueqin: è la vera chitarra luna nella forma originale. Si tratta di uno strumento a tre corde, con corpo perfettamente rotondo e piatto, unito a un collo corto.
Ruan (阮), chiamato anche qin pipa (秦琵琶) e ruanxian (阮咸): chitarra a quattro corde. Attualmente è usata nella musica popolare cinese, per a solo e nelle orchestre. Nella cassa di risonanza vi sono due fori rotondi che si aprono sulla faccia superiore. Si tratta di una chitarra baritono.
Sanxian: liuto a tre corde dal collo lungo. Ha la cassa di risonanza formata da un cerchio ovale il legno ricoperto nelle due facce, anteriore e posteriore, di pelle di rettile, solitamente serpente.
Le cetre (strumenti senza manico le cui corde sono tese su tutta o quasi la lunghezza della cassa): le principali sono il qin e il zheng.
Qin: è tra gli strumenti cinesi il più studiato, in Cina e all’estero. Ha una cassa costituita da due tavole di legno, una superiore arcuata e una inferiore piatta. Inizialmente suonato sulle ginocchia, fu poi posato su di una tavola. Ha un unico ponticello che regge le sue 7 corde, tradizionalmente di seta. Si suona a pizzico con la punta delle dita e il pollice o con il plettro.
Zheng: è una cetra a ponticelli mobili con 13 corde. Le corde, tese su tutta la lunghezza della cassa di risonanza, passano su singoli ponticelli che l’interprete può spostare leggermente. Le dita della mano destra pizzicano le corde a destra dei ponticelli; l’appoggio della mano sinistra sulla parte libera della corda, a sinistra dei ponticelli, permette di fare vibrare e alzare l’intonazione della nota. Deriva dalla cetra se (a 25 corde, non più in uso) e viene talvolta definita una sua versione più piccola.
Nell’antichità la tecnica di esecuzione si distingueva nettamente dalle altre cetra per via del bastoncino che percuoteva le corde.
Strumenti a fiato
Nella famiglia degli aerofoni, cioè di quelli strumenti il cui suono è prodotto dalle vibrazioni dell’aria, i più usati nelle orchestre di musica tradizionale cinese sono i flauti, le zampogne e gli organi a bocca.
Xiao: flauto diritto che vanta un’antichità di circa 3000 anni. Sotto le dinastie dei Sui (589-618) e dei Tang (618-907) era lo strumento principale dell’orchestra. Da due secoli i più famosi Xiao sono prodotti a Yubing nel Guizhou, ove esiste un particolare bambù che permette la costruzione di flauti dal timbro eccezionale, inalterabili nel tempo e inattaccabili dagli insetti. Approfondisci.
Dizi: flauto traverso, è popolarissimo in Cina sia come strumento per a solo che come parte integrante di orchestre. Per moltissimo tempo costituì l’accompagnamento principale dell’Opera di Pechino. Formato da un pezzo di bambù con otto fori. ha il secondo foro coperto da un tessuto vegetale che rende il suo suono particolarmente dolce.
Suona: solitamente chiamato oboe cinese, ad ancia doppia, in realtà è una zampogna spesso usata per a solo, raramente per accompagnare il canto. Formato da un corpo centrale in legno duro, sagomato ad anelli, negli avvallamenti dei quali sono stati fatti otto fori. Il suona è simile a molte zampogne indiane e turche. Produce un suono forte e squillante.
Sheng: si tratta di un organo a bocca formato da un minimo di 14 e un massimo di 32 canne di bambù, ciascuna delle quali ha un foro. Le canne di differente lunghezza sono poste sopra un contenitore di metallo. Il suono si ottiene soffiando aria nel serbatoio-contenitore e regolando l’emissione nelle varie canne mediante i fori coperti dalle dita.
Vedi http://www.ksanti.net/free-reed/history/sheng.html
Hulusi (葫芦丝)葫芦丝): solitamente chiamato oboe cinese, ad ancia doppia, in realtà è una zampogna spesso usata per a solo, raramente per accompagnare il canto. Formato da un corpo centrale in legno duro, sagomato ad anelli, negli avvallamenti dei quali sono stati fatti otto fori.
Strumenti a percussione
Sono i più numerosi e forse i più antichi costruiti dall’uomo. Nella musica tradizionale cinese vi sono molti strumenti a percussione, dalle numerose campanelle in legno o metallo, ai cimbali, ai diversi tipi di tamburi fino al notissimo gong.
Ban: è lo strumento che segna il tempo nell’Opera di Pechino. I tre pezzi di legno simili alle nostre castagnette sono impugnati dallo stesso suonatore che batte con la destra il piccolo tamburo. Nella nostra orchestra gli orchestrali seguono il tempo osservando il direttore che lo indica con la mano o la bacchetta, in quella cinese i suonatori "sentono" il tempo scandito dal ban.
Xiaogu: il piccolo tamburo è formato da cerchi di legno ricoperti di pelle di maiale. Solitamente è appeso con delle corde a un traliccio di legno. Quando le castagnette (ban) sono coperte dal suono dei cimbali o da altri strumenti molto sonori, il compito di far sentire il tempo passa al piccolo tamburo (xiaogu).
Dagu: il grande tamburo, costruito come il piccolo tamburo ma coperto di pelle bovina, viene impiegato nel teatro o nell’orchestra per creare il rumore della battaglia.
Daluo: è il notissimo disco di metallo (gong). È diventato quasi il simbolo dell’Oriente perché è lo strumento più suonato. Il daluo (grande gong) è usato nelle cerimonie, nelle feste e soprattutto nell’Opera di Pechino ove, con il suo suono, indica l’inizio o la fine di un passaggio musicale nel recitato, l’ingresso o l’uscita di scena di un personaggio maschile o per sottolineare i gesti comici di un attore.
Xiaoluo: il piccolo gong viene invece usato nell’Opera di Pechino per marcare l’ingresso in scena di un personaggio femminile (dan). Le sue dimensioni si aggirano sui venti cm di diametro.
Jiuyunluo: si tratta di un carillon di gong, sospesi a un supporto di legno.
Sempre a questo gruppo appartiene il carillon di campane o di pezzi di pietra (litofono) che in Cina solitamente è giada. Il gruppo di gong, di campane o di pietre viene suonato con martelletti, o mazzuoli, di legno coperti di feltro.
Nao: assomigliano moltissimo ai nostri piatti eccetto che per alcune varianti della forma. Tutti sono di ottone e vengono suonati facendoli battere o sfregare tra loro.
martedì 19 marzo 2013
Canzoni.
Come nasce una canzone
Una canzone può nascere dalla necessità di dare un veste musicale a un testo poetico preesistente, oppure trarre origine da un motivo "che ci frulla nella testa", in giro di accordi, un "riff" trovato sulla chitarra. Altre volte parole e musica nascono insieme.
Comunque sia, le idee vanno poi sviluppate per dar "forma" a una vera canzone e, poichè nella breve durata del brano nulla deve trovarsi fuori
Strofa e ritornello
Il più delle volte una canzone si organizza in 2 parti distinte basate su 2 motivi di diverso carattere musicale ed espressivo. Una di queste, la strofa, serve a l'autore per raccontare la vicenda: la melodia asseconda il testo mantenendo un andamento abbastanza vicino al passato. Nell'altra, il ritornello, il testo assume un carattere lirico, la musica si carica di espressività e il canto si fa più appassionato. Se nella strofa l'autore ricerca la giusta atmosfera, nel ritornello egli svela le sue carte: qui ci deve essere tutto quello che si deve ricordare della canzone, quindi il testo è facilmente moralizzabile e la melodia orecchiabile.
Introduzione e coda
Nella sua forma più semplice e ricorrente la canzone alterna strofa e ritornello, ma non faticherete certo a trovare eccezioni. Spesso, oltre alle 2 patri principali, sono presenti brevi passaggi orchestrali o vocali che assolvono a particolari funzioni strutturali: introdurre, collegare le diverse sezioni, concludere il brano semplicemente, inserire una nota di colore.
A volte si usa far precedere la canzone vera e propria da una breve introduzione. Questa può avere un testo, ad esempio il racconto di un antefatto, o presentare una parte strumentale originale, magari derivata da una frase musicale che l'ascoltatore incontrerà più avanti nel corso dello stesso brano. In ogni caso l'introduzione ha il compito di preparare l'atmosfera della canzone stessa. Per terminare invece una canzone spesso si ricorre all'espediente di ripetere molte volte il ritornello sfumandolo, cioè diminuendo progressivamente parole l'intensità al momento della registrazione. Più di rado viene realizzata appositamente una nuova frase melodica, detta coda, con funzione conclusiva.
Una canzone può nascere dalla necessità di dare un veste musicale a un testo poetico preesistente, oppure trarre origine da un motivo "che ci frulla nella testa", in giro di accordi, un "riff" trovato sulla chitarra. Altre volte parole e musica nascono insieme.
Comunque sia, le idee vanno poi sviluppate per dar "forma" a una vera canzone e, poichè nella breve durata del brano nulla deve trovarsi fuori
Strofa e ritornello
Il più delle volte una canzone si organizza in 2 parti distinte basate su 2 motivi di diverso carattere musicale ed espressivo. Una di queste, la strofa, serve a l'autore per raccontare la vicenda: la melodia asseconda il testo mantenendo un andamento abbastanza vicino al passato. Nell'altra, il ritornello, il testo assume un carattere lirico, la musica si carica di espressività e il canto si fa più appassionato. Se nella strofa l'autore ricerca la giusta atmosfera, nel ritornello egli svela le sue carte: qui ci deve essere tutto quello che si deve ricordare della canzone, quindi il testo è facilmente moralizzabile e la melodia orecchiabile.
Introduzione e coda
Nella sua forma più semplice e ricorrente la canzone alterna strofa e ritornello, ma non faticherete certo a trovare eccezioni. Spesso, oltre alle 2 patri principali, sono presenti brevi passaggi orchestrali o vocali che assolvono a particolari funzioni strutturali: introdurre, collegare le diverse sezioni, concludere il brano semplicemente, inserire una nota di colore.
A volte si usa far precedere la canzone vera e propria da una breve introduzione. Questa può avere un testo, ad esempio il racconto di un antefatto, o presentare una parte strumentale originale, magari derivata da una frase musicale che l'ascoltatore incontrerà più avanti nel corso dello stesso brano. In ogni caso l'introduzione ha il compito di preparare l'atmosfera della canzone stessa. Per terminare invece una canzone spesso si ricorre all'espediente di ripetere molte volte il ritornello sfumandolo, cioè diminuendo progressivamente parole l'intensità al momento della registrazione. Più di rado viene realizzata appositamente una nuova frase melodica, detta coda, con funzione conclusiva.
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martedì 12 marzo 2013
La musica dell'Africa
La musica africana, nel senso di musica originaria dell'Africa, è estremamente eterogenea, in quanto riflette la varietà etnica, culturale e linguistica del continente. L'espressione "musica africana" viene talvolta usata anche in modo più specifico per riferirsi alla musica dell'africa subsahariana, essendo la tradizione musicale del Nordafrica essenzialmente sovrapponibile a quella mediorientale. Elementi mediorientali si trovano anche nella musica dei popoli della costa est del continente, che risente anche di influenze indiane, persiane e in generale degli effetti degli scambi commerciali e culturali sull'Oceano Indiano. In ogni caso, anche all'interno di queste tre aree principali (Nordafrica, Africa subsahariana, Africa orientale) esiste una grandissima diversificazione degli stili sia della musica etnica tradizionale che della musica moderna. Quest'ultima risente praticamente ovunque (ma soprattutto nei paesi con una forte eredità coloniale) dell'influenza della musica leggera europea e statunitense. D'altra parte, la diaspora africana e il conseguente diffondersi in America ed Europa della tradizione musicale africana ha influito in modo determinante sullo sviluppo della musica leggera occidentale.
Nell'Africa subsahariana la musica e la danza sono quasi sempre elementi centrali e fondamentali della cultura dei popoli, e sono dotati di grande valore sociale e religioso. Ogni etnia ha una propria tradizione musicale così come ha una propria tradizione letteraria e un proprio insieme di regole e credenze; ogni gruppo sociale possiede un repertorio musicale di riferimento e dei sottogeneri appropriati a determinate celebrazioni (per esempio nascita, passaggio all'età adulta, matrimonio, funerale) o anche semplicemente attività quotidiane come il raccolto nei campi e lo smistamento delle riserve alimentari.
Ciò che ritroveremo sempre in ogni variante musicale, a prescindere dallo scopo per cui viene prodotta, è la caratteristica poliritmia, la capacità cioè di sviluppare contemporaneamente diversi ritmi e di mantenerli in modo costante ed uniforme, senza che uno prevarichi su di un altro. Una particolare funzione sociale è rappresentata dalle percussioni e dalle campane che in molte zone vengono utilizzati come strumenti di comunicazione. La musica è, ad esempio, una delle pratiche più note e più impiegate per un griot ( o griotte) proprio perché in molti contesti le relazioni sono spesso basate sull’impatto emozionale. Anche il canto è molto diffuso e riveste una funzione sociale importantissima, durante i funerali, ad esempio, per ripercorrere le tappe dell’esistenza del defunto, dunque mantenerne viva la memoria e per narrare le imprese degli antenati cui spetta il compito di accogliere l’anima della persona mancata. Le epopee mitiche cantate dai griot, oltre a mettere in evidenza il potere costituito, trasmettono gli avvenimenti particolari che fanno parte della storia di una comunità e permettono una trasmissione facilitata proprio dal ritmo della melodia sottostante. Il canto, la musica e la danza diventano da un lato veicoli di tipo simbolico e dall’altro preziosi strumenti della memoria collettiva. La musica tradizionale si trasmette oralmente, dunque non esistono spartiti o forme scritte in cui è possibile rinvenire delle melodie. Tutto viene creato e comunicato direttamente ed è per questo che un aspetto importantissimo è dato dall’improvvisazione.
La complessità ritmica delle musiche africane si è di fatto trasferita a molte espressioni musicali dei paesi dell’America Latina; l’aspetto più affascinante di questa poliritmia è costituito dalla possibilità di distinguere chiaramente i diversi ritmi pur percependoli unitariamente in modo coerente. Per quanto riguarda la voce, è interessante notare che generalmente si utilizzano timbri canori tendenti al rauco e al gutturale. Molte lingue locali, in Africa, sono di tipo tonale ed è per questo che esiste un collegamento molto stretto tra la musica e la lingua. Soprattutto nel canto, è il modello tonale del testo che condiziona la struttura melodica. Conoscendo molto approfonditamente queste lingue, è possibile riconoscere dei testi anche nelle melodie degli strumenti ed è quest’effetto che ha dato fama al cosiddetto “tamburo parlante”.la musica africana è piena di ritmi.
Nell'Africa subsahariana la musica e la danza sono quasi sempre elementi centrali e fondamentali della cultura dei popoli, e sono dotati di grande valore sociale e religioso. Ogni etnia ha una propria tradizione musicale così come ha una propria tradizione letteraria e un proprio insieme di regole e credenze; ogni gruppo sociale possiede un repertorio musicale di riferimento e dei sottogeneri appropriati a determinate celebrazioni (per esempio nascita, passaggio all'età adulta, matrimonio, funerale) o anche semplicemente attività quotidiane come il raccolto nei campi e lo smistamento delle riserve alimentari.
Ciò che ritroveremo sempre in ogni variante musicale, a prescindere dallo scopo per cui viene prodotta, è la caratteristica poliritmia, la capacità cioè di sviluppare contemporaneamente diversi ritmi e di mantenerli in modo costante ed uniforme, senza che uno prevarichi su di un altro. Una particolare funzione sociale è rappresentata dalle percussioni e dalle campane che in molte zone vengono utilizzati come strumenti di comunicazione. La musica è, ad esempio, una delle pratiche più note e più impiegate per un griot ( o griotte) proprio perché in molti contesti le relazioni sono spesso basate sull’impatto emozionale. Anche il canto è molto diffuso e riveste una funzione sociale importantissima, durante i funerali, ad esempio, per ripercorrere le tappe dell’esistenza del defunto, dunque mantenerne viva la memoria e per narrare le imprese degli antenati cui spetta il compito di accogliere l’anima della persona mancata. Le epopee mitiche cantate dai griot, oltre a mettere in evidenza il potere costituito, trasmettono gli avvenimenti particolari che fanno parte della storia di una comunità e permettono una trasmissione facilitata proprio dal ritmo della melodia sottostante. Il canto, la musica e la danza diventano da un lato veicoli di tipo simbolico e dall’altro preziosi strumenti della memoria collettiva. La musica tradizionale si trasmette oralmente, dunque non esistono spartiti o forme scritte in cui è possibile rinvenire delle melodie. Tutto viene creato e comunicato direttamente ed è per questo che un aspetto importantissimo è dato dall’improvvisazione.
La complessità ritmica delle musiche africane si è di fatto trasferita a molte espressioni musicali dei paesi dell’America Latina; l’aspetto più affascinante di questa poliritmia è costituito dalla possibilità di distinguere chiaramente i diversi ritmi pur percependoli unitariamente in modo coerente. Per quanto riguarda la voce, è interessante notare che generalmente si utilizzano timbri canori tendenti al rauco e al gutturale. Molte lingue locali, in Africa, sono di tipo tonale ed è per questo che esiste un collegamento molto stretto tra la musica e la lingua. Soprattutto nel canto, è il modello tonale del testo che condiziona la struttura melodica. Conoscendo molto approfonditamente queste lingue, è possibile riconoscere dei testi anche nelle melodie degli strumenti ed è quest’effetto che ha dato fama al cosiddetto “tamburo parlante”.la musica africana è piena di ritmi.
In Africa, la musica tradizionale è caratterizzata proprio dall’utilizzo di particolari strumenti musicali, spesso prodotti con materiali naturali come zucche, corna, pelli, conchiglie anche se attualmente è in uso una vasta tipologia di materiali artificiali, perlopiù in alluminio o in metallo come lattine, stringhe, tappi di bottiglia, bidoni.
Oltre agli strumenti in senso proprio, troviamo una serie di oggetti che pur non essendo classificabili come strumenti, vengono di fatto suonati e definiti da queste stesse popolazioni come "strumenti ritmici", vale a dire: sonagli, pendagli, fischietti, bracciali, conchiglie etc. Fra di essi uno dei più antichi fu l'arco, che oltre alla funzione di arma, nel caso dei Boscimani, grazie alla corda pizzicata o toccata, amplificata da vasi di legno o zucche vuote posti all'estremità, assunse anche il ruolo di strumento.[4]
In etnomusicologia, generalmente si suddividono gli strumenti musicali in quattro grandi categorie:
- IDIOFONI
Il suono è prodotto dallo strumento stesso senza particolari ausili o supporti
- MEMBRANOFONI
Il suono è prodotto da una o più membrane che vengono battute con le mani o con bastoni affusolati
- CORDOFONI
Il suono è prodotto da corde, in cuoio o in nylon, che vengono pizzicate
- AEROFONI
Il suono è prodotto dal fiato del musicista e canalizzato dallo strumento stesso
sabato 19 gennaio 2013
Trovatore
Il trovatore è un'opera di Giuseppe Verdi rappresentata in prima assoluta il 19 gennaio 1853 al Teatro Apollo di Roma. Assieme a Rigoletto e La traviata fa parte della cosiddetta trilogia popolare.
Il libretto, in quattro parti e otto quadri, fu tratto dal dramma El Trovador di Antonio García Gutiérrez. Fu Verdi stesso ad avere l'idea di ricavare un'opera dal dramma di Gutiérrez, commissionando a Salvadore Cammarano la riduzione librettistica. Il poeta napoletano morì improvvisamente nel 1852, appena terminato il libretto, e Verdi, che desiderava alcune aggiunte e piccole modifiche, si trovò costretto a chiedere l'intervento di un collaboratore del compianto Cammarano, Leone Emanuele Bardare. Questi, che operò su precise direttive dell'operista, mutò il metro della canzone di Azucena (da settenari a doppi quinari) e aggiunse il cantabile di Luna (Il balen del suo sorriso - II.3) e quello di Leonora (D'amor sull'ali rosee - IV.1). Lo stesso Verdi, inoltre, intervenne personalmente sui versi finali dell'opera, abbreviandoli.
Atto I - Il Duello
Scena I - Palazzo dell'Aliaferia in Biscaglia.
Nell'atrio del palazzo, i familiari e gli armigeri del Conte di Luna attendono il rientro del loro giovane signore.
Il conte è innamorato di Leonora, dama della regina, e trascorre buona parte della notte a sorvegliare la casa della giovane, preoccupato ch'ella ceda alla corte del suo temuto rivale: il Trovatore.
Ferrando, capitano delle guardie, racconta la fosca vicenda di una zingara, condannata al rogo per maleficio e di sua figlia Azucena che, per vendicare la madre, rapì uno dei due figli del vecchio Conte di Luna.
Il nobile signore morì sopraffatto dal dolore quando Azucena buttò il figlioletto rapito sullo stesso rogo della madre.
Il racconto è raccapricciante e i presenti imprecano contro la malvagia Azucena, di cui si sono perse le tracce, mentre il fantasma della vecchia zingara infesta ancora il castello, dove appare allo scoccare della mezzanotte terrorizzando la servitù.
Scena II - Giardini del palazzo.
Quando le due donne rientrano, avanza il Conte di Luna, deciso a parlare a Leonora, ma il suono del liuto del Trovatore ed il suo canto lo fermano.
Consumato dalla gelosia, il conte cerca di attirare l'amata in una trappola: si nasconde nel mantello e attende.
Leonora scende in giardino attratta dalla musica, scambia il conte per l'amato, lo abbraccia dichiarandogli il suo amore.
Il Trovatore assiste sbigottito ed accusa Leonora d'infedeltà, ma lei chiarisce l'equivoco e si getta ai suoi piedi confermandogli così il suo affetto.
Furente d'ira, il Conte costringe il rivale a dichiarare la sua identità: egli è Manrico, un seguace del ribelle Conte Urgel.
Il conte, sdegnato, lo sfida a duello e i due si allontanano con le spade sguainate, mentre Leonora sviene; nel duello, il Conte rimarrà ferito ma il rivale gli risparmierà la vita.
Atto II - La Gitana
Scena I - Un accampamento di zingari sulle montagne in Biscaglia.
Manrico è con Azucena, di cui crede di essere figlio, mentre lei gli racconta di come sua madre fu accusata, da un arrogante Conte, di avergli stregato il figlio e di come la povera donna fu incatenata.
Racconta poi che lei aveva seguito piangendo, la madre mentre veniva portata al rogo dicendo le sue ultime parole: "Vendicami".
Manrico le chiede della vendetta e Azucena gli risponde che per vendicarla, come presa da un raptus crudele, rapì il figlio del conte e lo gettò sul rogo mentre bruciava ancora.
Però, quando l'ira e l'allucinazione passò, la zingara si accorse di avere ancora il figlio del conte al suo fianco: il bambino bruciato nel rogo era il suo.
Azucena è sconvolta e Manrico è inorridito dal racconto e si chiede chi sia lui se non è figlio di Azucena? Si chiede anche perchè nel duello con il Conte di Luna non lo ha ucciso.
Azucena gli assicura di essere sua madre e spiega che il ricordo di quell'orribile rogo l'ha indotta a dire parole senza senso e lo esorta a compiere lui la vendetta.
Nel frattempo, un messaggero porta la notizia che Leonora, ritenendolo morto, stia per farsi suora per sfuggire alle insidie del Conte.
Il Trovatore, nonostante l'opposizione di Azucena, decide di andare al Convento per impedire all'amata di entrare in convento.
Scena II - Notte, in un convento vicino alla fortezza di Castellor.
Anche il Conte di Luna, giunge con i suoi fidi al convento per strappare al chiostro Leonora.
Leonora sta per entrare a far parte della comunità religiosa e conforta le sue dame che l'accompagnano e che si mostrano tristi per la sua decisione.
Il Conte le sbarra il passo con la ferma intenzione di rapirla, ma all'improvviso compare Manrico: nasce un acceso scontro, nel corso del quale l'arrivo dei seguaci di Urgel, disarmano il Conte e i suoi facendo in modo che Manrico possa allontanarsi con l'amata.
Atto III - Il Figlio della Zingara
Scena I - Accampamento delle truppe regie vicino alla fortezza di Castellor.
Le truppe regie, al comando del Conte di Luna, sono accampate nei pressi di Castellor, espugnato dagli armigeri di Urgel, ed attendono di sferrare l'attacco per il quale giungono rinforzi.
Ferrando, capitano delle guardie, annuncia al Conte la cattura di una zingara ritenuta una possibile spia: è Azucena.
Interrogata, la donna dichiara di venire dalla Biscaglia per ritrovare il figlio che l'ha abbandonata, ma Ferrando riconosce in lei la rapitrice del bambino.
Azucena invoca il soccorso di Manrico: il Conte è allora soddisfatto di avere nelle sue mani l'assassina di suo fratello e di sapere che è la madre del suo rivale in amore.
Scena II - Atrio della Cappella di Castellor
Manrico e Leonora stanno andando all'altare per sposarsi e coronare il loro sogno..
Leonora è preoccupata per l'attacco dell'esercito del re, ma il Trovatore la rassicura assicurandole che, una volta suo sposo, combatterà con maggiore coraggio.
Arriva trafelato Ruiz, per comunicare che gli sgherri stanno preparando il rogo per Azucena e Manrico rivela allora a Leonora che la zingara è sua madre e corre in suo soccorso.
Atto IV - Il supplizio
Scena I - Un'ala del palazzo dell'Aliaferia
Manrico è stato catturato, incarcerato nella torre del palazzo dell'Aliaferia e condannato a morte.
Si ode la campana a morto ed il canto del "Miserere" per i condannati; Leonora ai piedi della torre ascolta l'ultimo addio dell'amato, poi, decisa a salvarlo a prezzo della propria vita, si offre al Conte di Luna in cambio della libererà del Trovatore.
Il nobile Conte, sempre innamorato di Leonora, accetta e le concede di portare, lei stessa, la notizia della grazia al prigioniero.
Di nascosto la coraggiosa ragazza ingoia furtivamente del veleno che teneva racchiuso in una gemma.
Scena II - La prigione all'interno della Torre nel Palazzo Reale in Biscaglia.
Nel carcere, Manrico veglia Azucena tormentata dalla sua vicina esecuzione del figlio, quando giunge inaspettata Leonora che gli si getta fra le braccia annunciandogli la grazia ed esortandolo alla fuga.
Egli dapprima esulta felice, poi, capito il duro prezzo del riscatto, aggredisce la donna e rifiutando sdegnosamente la clemenza del rivale.
Ma il veleno fa effetto rapidamente e Leonora muore.
Mentre Manrico si strugge dal dolore e dal rimorso, il Conte di Luna si rende conto del raggiro dell'amata per salvare il Trovatore e ordina agli sgherri di eseguire immediatamente la sentenza di morte di Manrico, obbligando Azucena ad assistere al supplizio dalla finestra della prigione.
Quando la scure ha decapitato l'infelice, la zingara, quasi impazzita, grida al Conte, inorridito:"Egli era tuo fratello! Madre, ora sei vendicata".
martedì 8 gennaio 2013
Traviata
La traviata è un'opera in tre atti di Giuseppe Verdi su libretto di Francesco Maria Piave, tratto dalla pièce teatrale di Alexandre Dumas (figlio) La signora delle camelie; fa parte della "trilogia popolare" assieme a Il trovatore e a Rigoletto.
Fu in parte composta nella villa degli editori Ricordi a Cadenabbia, sul lago di Como. La prima rappresentazione avvenne al Teatro La Fenice di Venezia il 6 marzo 1853 ma, a causa soprattutto di interpreti non all’altezza e della scabrosità dell'argomento, si rivelò un sonoro fiasco; ripresa l’anno successivo con interpreti più validi e retrodatando l'azione di due secoli, riscosse finalmente il meritato successo. Gli interpreti e gli artisti coinvolti nella prima del 1853 furono i seguenti:
Atto primo
A Parigi, nella lussuosa casa di Violetta Valéry, «cortigiana» di alto bordo, è in corso l’ennesima festa. Vi partecipano i soliti mondani aristocratici, le loro ‘signore’, qualche dama di dubbia nobiltà e moralità. È un tripudio di chiacchiere, di risate e di musica. Tra i presenti, per la prima volta e piuttosto a disagio, c’è il giovane Alfredo Germont: ha chiesto all’amico Gastone di venire introdotto, perché da qualche tempo è segretamente innamorato della padrona di casa. Costei si è accorta delle attenzioni del giovane, dei suoi complimenti così per bene, e vi risponde schernendosi ironicamente. Gastone propone un brindisi e invita Alfredo a formularlo («Libiam nei lieti calici»). Rivolto a tutta la compagnia, in realtà il brindisi diventa un duetto di sottintesi tra il giovane e Violetta: «La vita è nel tripudio» inneggia lei, «Quando non s’ami ancora» risponde lui. Intanto nell’attiguo salone si aprono le danze e tutti vi si dirigono, eccetto Violetta costretta ad arrestarsi per un violento colpo di tosse; per assisterla resta con lei Alfredo. Così rimangono soli e le profferte del giovane si fanno più serrate («Un dì felice, eterea»), mentre dall’altra sala giunge attutito il suono di un valzer. La donna da parte sua ribadisce di esser disposta solo all’amicizia. Il colloquio è interrotto da Gastone, rientrato a vedere che cosa i due stiano facendo. Ottenuto un appuntamento per il giorno dopo, Alfredo se ne va, mentre Violetta rimasta sola medita, turbata, sulle sue parole d’amore: forse, pensa, è arrivato anche per lei il momento di un amore vero e reciproco («È strano!...»… «Ah, forse è lui che l’anima»). Poi, come timorosa di illudersi troppo, riafferma la sua indipendenza da ogni legame, la dedizione alla libertà e ai piaceri dei sensi («Follie!... follie!... delirio vano è questo!...»…«Sempre libera degg’io»).
Atto secondo
Siamo in una casa di campagna nei dintorni di Parigi. Entra Alfredo, depone il fucile da caccia e canta la sua gioia per i tre mesi sereni trascorsi finora con l’amata Violetta («Lunge da lei per me non v’ha diletto!»...«Dei miei bollenti spiriti»). Ma subito la sua felicità s’incrina, quando scorge la domestica Annina rientrare da Parigi e viene a sapere che è stata mandata dalla signora a vendere cavalli, cocchi e quant’altro lei possieda: la coppia sta spendendo troppo, e d’altra parte lei voleva nascondergli le sue difficoltà economiche. Resosi conto della situazione («O mio rimorso, o infamia»), Alfredo decide di correre in città per cercare i soldi. Intanto sopraggiunge Violetta. È tranquilla e felice, apre la posta che le arriva da Parigi; sorride agli inviti dei vecchi amici che la reclamano a feste che a lei ormai non interessano più, quando le annunciano l’arrivo di un signore. È il padre di Alfredo, Giorgio Germont. Costui prima l’accusa di rovinare economicamente il figlio; poi, quando Violetta gli mostra, documenti alla mano, che è lei che si sta rovinando, cambia il tono recriminatorio in rammarico e le dice di avere una figlia in procinto di sposarsi («Pura siccome un angelo»), ma il futuro genero ha deciso di lasciarla se Alfredo non interrompe il vergognoso rapporto. Violetta cerca un compromesso, come allontanarsi dall’amato per un po’ di tempo, ma Germont insiste: dovrà lasciarlo per sempre. La donna allora esterna tutta la forza del suo sentimento («Non sapete quale affetto») e gli dice che preferirebbe morire. Ma il vecchio ipocrita finisce col convincerla insinuandole che l’amore è legato alla bellezza («Un dì, quando le veneri»), che cede presto alle prime rughe e alla noia. A questa possibile verità, la donna china il capo («Dite alla giovane»): farà credere all’amato di non poter lasciare la vita di prima. Chiede soltanto una grazia al genitore («Morrò!... la mia memoria»): che un giorno Alfredo, quando lei sarà morta, conosca la verità. Ormai sola, Violetta comincia a scrivere la lettera che la condannerà, ma viene interrotta dal rientro di Alfredo. Egli le chiede che cosa stia scrivendo e a chi, ma è turbato perché ha saputo dell’arrivo del padre. Violetta è sconvolta, parla e piange, poi esplode in un urlo d’amore («Amami, Alfredo») e corre in giardino. Poco dopo ad Alfredo viene recapitata una lettera, quella di Violetta; la legge e, disperato, si abbandona nelle braccia del padre rimasto nei pressi. Germont tenta di convincere il figlio a tornare a casa («Di Provenza il mar, il suol»). Ma questi lo respinge, non lo ascolta, pensa a un probabile rivale (il barone Douphol), fugge a precipizio per raggiungere la donna e vendicarsi dell’abbandono.
Siamo ora nel palazzo di Flora, l’amica di Violetta, nel pieno di una festa in maschera. Ci sono signore vestite da zingare («Noi siamo zingarelle») e signori, tra cui Gastone, abbigliati da toreri («Di Madride noi siam mattadori»). E tutti sanno già che i due amanti rifugiatisi in campagna si sono separati. Tuttavia l’arrivo alla festa di Alfredo coglie di sorpresa i presenti. Poco dopo arriva anche Violetta, al braccio di Douphol. L’incontro è imbarazzante, la tensione è estrema. Alfredo vince al gioco tutti, perfino il suo rivale barone. Viene annunciata la cena e i convitati si recano in sala da pranzo. Violetta chiama in disparte Alfredo, cerca di giustificare il suo comportamento ma, per non svelare la trama paterna, è costretta a mentire, a dichiarare che ama il barone. Infuriato, il giovane invita tutti gli altri ad ascoltarlo e alla loro presenza denuncia la donna («Ogni suo aver tal femmina»), gettandole ai piedi con disprezzo una borsa di denari. Per un gesto così volgare unanime è la riprovazione («Oh, infamia orribile»), a cui si unisce quella del padre Germont entrato appena in tempo per assistere alla scena («Di sprezzo degno se stesso rende»). L’atto termina con un concertato che assomma la condanna dei convitati alla disperazione di Violetta e al rimorso di Alfredo.
Atto terzo
Siamo ai momenti estremi della sventurata giovane; la tubercolosi ormai, come dirà il medico ad Annina, non le accorda che poche ore. In scena infatti, accanto a lei, vigila la fedele domestica; in seguito arriva il dottore, a chiedere come la malata abbia passato la notte. Fuori il carnevale impazza, si sentono i canti e le danze. Violetta si consola leggendo e rileggendo la lettera ricevuta da Germont, che la informa del duello tra il barone e suo figlio, in cui il primo è rimasto ferito ma lievemente; inoltre le scrive che Alfredo sa ora la verità sul suo sacrificio e che dall’estero sta tornando precipitosamente da lei. E lei aspetta tra speranza, timore e la consapevolezza che ormai è troppo tardi («Addio del passato»). Torna Annina in grande agitazione, e non fa a tempo ad annunciarle l’arrivo dell’amante che lui entra e l’abbraccia. Alla commozione e alla gioia segue un duetto di illuso ottimismo («Parigi, o cara»).Violetta vorrebbe alzarsi e partire subito, ma le forze la tradiscono e ricade sul canapè («Gran Dio!... morir sì giovane»), tra il dolore e la costernazione di Alfredo. Sopraggiunge anche Germont, pieno di rimorsi. «Oimè, tardi giungeste!» gli mormora l’infelice. Poi Violetta lascia nelle mani dell’amato un suo ritratto dei tempi migliori («Prendi, quest’è l’immagine»). Per un attimo sembra riprendersi; invece muore tra le braccia dei suoi cari.
Fu in parte composta nella villa degli editori Ricordi a Cadenabbia, sul lago di Como. La prima rappresentazione avvenne al Teatro La Fenice di Venezia il 6 marzo 1853 ma, a causa soprattutto di interpreti non all’altezza e della scabrosità dell'argomento, si rivelò un sonoro fiasco; ripresa l’anno successivo con interpreti più validi e retrodatando l'azione di due secoli, riscosse finalmente il meritato successo. Gli interpreti e gli artisti coinvolti nella prima del 1853 furono i seguenti:
Personaggio | Interprete |
---|---|
Violetta | Fanny Salvini Donatelli |
Alfredo Germont | Lodovico Graziani |
Giorgio Germont | Felice Varesi |
Flora Bervoix | Speranza Giuseppini |
Annina | Carlotta Berini |
Gastone | Angelo Zuliani |
Douphol | Francesco Dragone |
Marchese d'Obigny | Arnaldo Silvestri |
Dottor Grenvil | Andrea Bellini |
Giuseppe | Giuseppe Borsato |
Domestico di Flora | Giuseppe Tona |
Commissionario | Antonio Manzini |
Scene | Giuseppe Bertoja |
Maestro al cembalo | Giuseppe Verdi (per tre recite) |
Primo violino e direttore d'orchestra | Gaetano Mares |
Atto primo
A Parigi, nella lussuosa casa di Violetta Valéry, «cortigiana» di alto bordo, è in corso l’ennesima festa. Vi partecipano i soliti mondani aristocratici, le loro ‘signore’, qualche dama di dubbia nobiltà e moralità. È un tripudio di chiacchiere, di risate e di musica. Tra i presenti, per la prima volta e piuttosto a disagio, c’è il giovane Alfredo Germont: ha chiesto all’amico Gastone di venire introdotto, perché da qualche tempo è segretamente innamorato della padrona di casa. Costei si è accorta delle attenzioni del giovane, dei suoi complimenti così per bene, e vi risponde schernendosi ironicamente. Gastone propone un brindisi e invita Alfredo a formularlo («Libiam nei lieti calici»). Rivolto a tutta la compagnia, in realtà il brindisi diventa un duetto di sottintesi tra il giovane e Violetta: «La vita è nel tripudio» inneggia lei, «Quando non s’ami ancora» risponde lui. Intanto nell’attiguo salone si aprono le danze e tutti vi si dirigono, eccetto Violetta costretta ad arrestarsi per un violento colpo di tosse; per assisterla resta con lei Alfredo. Così rimangono soli e le profferte del giovane si fanno più serrate («Un dì felice, eterea»), mentre dall’altra sala giunge attutito il suono di un valzer. La donna da parte sua ribadisce di esser disposta solo all’amicizia. Il colloquio è interrotto da Gastone, rientrato a vedere che cosa i due stiano facendo. Ottenuto un appuntamento per il giorno dopo, Alfredo se ne va, mentre Violetta rimasta sola medita, turbata, sulle sue parole d’amore: forse, pensa, è arrivato anche per lei il momento di un amore vero e reciproco («È strano!...»… «Ah, forse è lui che l’anima»). Poi, come timorosa di illudersi troppo, riafferma la sua indipendenza da ogni legame, la dedizione alla libertà e ai piaceri dei sensi («Follie!... follie!... delirio vano è questo!...»…«Sempre libera degg’io»).
Atto secondo
Siamo in una casa di campagna nei dintorni di Parigi. Entra Alfredo, depone il fucile da caccia e canta la sua gioia per i tre mesi sereni trascorsi finora con l’amata Violetta («Lunge da lei per me non v’ha diletto!»...«Dei miei bollenti spiriti»). Ma subito la sua felicità s’incrina, quando scorge la domestica Annina rientrare da Parigi e viene a sapere che è stata mandata dalla signora a vendere cavalli, cocchi e quant’altro lei possieda: la coppia sta spendendo troppo, e d’altra parte lei voleva nascondergli le sue difficoltà economiche. Resosi conto della situazione («O mio rimorso, o infamia»), Alfredo decide di correre in città per cercare i soldi. Intanto sopraggiunge Violetta. È tranquilla e felice, apre la posta che le arriva da Parigi; sorride agli inviti dei vecchi amici che la reclamano a feste che a lei ormai non interessano più, quando le annunciano l’arrivo di un signore. È il padre di Alfredo, Giorgio Germont. Costui prima l’accusa di rovinare economicamente il figlio; poi, quando Violetta gli mostra, documenti alla mano, che è lei che si sta rovinando, cambia il tono recriminatorio in rammarico e le dice di avere una figlia in procinto di sposarsi («Pura siccome un angelo»), ma il futuro genero ha deciso di lasciarla se Alfredo non interrompe il vergognoso rapporto. Violetta cerca un compromesso, come allontanarsi dall’amato per un po’ di tempo, ma Germont insiste: dovrà lasciarlo per sempre. La donna allora esterna tutta la forza del suo sentimento («Non sapete quale affetto») e gli dice che preferirebbe morire. Ma il vecchio ipocrita finisce col convincerla insinuandole che l’amore è legato alla bellezza («Un dì, quando le veneri»), che cede presto alle prime rughe e alla noia. A questa possibile verità, la donna china il capo («Dite alla giovane»): farà credere all’amato di non poter lasciare la vita di prima. Chiede soltanto una grazia al genitore («Morrò!... la mia memoria»): che un giorno Alfredo, quando lei sarà morta, conosca la verità. Ormai sola, Violetta comincia a scrivere la lettera che la condannerà, ma viene interrotta dal rientro di Alfredo. Egli le chiede che cosa stia scrivendo e a chi, ma è turbato perché ha saputo dell’arrivo del padre. Violetta è sconvolta, parla e piange, poi esplode in un urlo d’amore («Amami, Alfredo») e corre in giardino. Poco dopo ad Alfredo viene recapitata una lettera, quella di Violetta; la legge e, disperato, si abbandona nelle braccia del padre rimasto nei pressi. Germont tenta di convincere il figlio a tornare a casa («Di Provenza il mar, il suol»). Ma questi lo respinge, non lo ascolta, pensa a un probabile rivale (il barone Douphol), fugge a precipizio per raggiungere la donna e vendicarsi dell’abbandono.
Siamo ora nel palazzo di Flora, l’amica di Violetta, nel pieno di una festa in maschera. Ci sono signore vestite da zingare («Noi siamo zingarelle») e signori, tra cui Gastone, abbigliati da toreri («Di Madride noi siam mattadori»). E tutti sanno già che i due amanti rifugiatisi in campagna si sono separati. Tuttavia l’arrivo alla festa di Alfredo coglie di sorpresa i presenti. Poco dopo arriva anche Violetta, al braccio di Douphol. L’incontro è imbarazzante, la tensione è estrema. Alfredo vince al gioco tutti, perfino il suo rivale barone. Viene annunciata la cena e i convitati si recano in sala da pranzo. Violetta chiama in disparte Alfredo, cerca di giustificare il suo comportamento ma, per non svelare la trama paterna, è costretta a mentire, a dichiarare che ama il barone. Infuriato, il giovane invita tutti gli altri ad ascoltarlo e alla loro presenza denuncia la donna («Ogni suo aver tal femmina»), gettandole ai piedi con disprezzo una borsa di denari. Per un gesto così volgare unanime è la riprovazione («Oh, infamia orribile»), a cui si unisce quella del padre Germont entrato appena in tempo per assistere alla scena («Di sprezzo degno se stesso rende»). L’atto termina con un concertato che assomma la condanna dei convitati alla disperazione di Violetta e al rimorso di Alfredo.
Atto terzo
Siamo ai momenti estremi della sventurata giovane; la tubercolosi ormai, come dirà il medico ad Annina, non le accorda che poche ore. In scena infatti, accanto a lei, vigila la fedele domestica; in seguito arriva il dottore, a chiedere come la malata abbia passato la notte. Fuori il carnevale impazza, si sentono i canti e le danze. Violetta si consola leggendo e rileggendo la lettera ricevuta da Germont, che la informa del duello tra il barone e suo figlio, in cui il primo è rimasto ferito ma lievemente; inoltre le scrive che Alfredo sa ora la verità sul suo sacrificio e che dall’estero sta tornando precipitosamente da lei. E lei aspetta tra speranza, timore e la consapevolezza che ormai è troppo tardi («Addio del passato»). Torna Annina in grande agitazione, e non fa a tempo ad annunciarle l’arrivo dell’amante che lui entra e l’abbraccia. Alla commozione e alla gioia segue un duetto di illuso ottimismo («Parigi, o cara»).Violetta vorrebbe alzarsi e partire subito, ma le forze la tradiscono e ricade sul canapè («Gran Dio!... morir sì giovane»), tra il dolore e la costernazione di Alfredo. Sopraggiunge anche Germont, pieno di rimorsi. «Oimè, tardi giungeste!» gli mormora l’infelice. Poi Violetta lascia nelle mani dell’amato un suo ritratto dei tempi migliori («Prendi, quest’è l’immagine»). Per un attimo sembra riprendersi; invece muore tra le braccia dei suoi cari.
Tempi dell'opera:
Atto primo: 45 minuti
Intervallo 30 minuti
Atto secondo: 40 minutiIntervallo 25 minuti
Atto terzo: 30 minuti
Atto primo: 45 minuti
Intervallo 30 minuti
Atto secondo: 40 minutiIntervallo 25 minuti
Atto terzo: 30 minuti
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Traviata
Giuseppe Verdi
Nato a Le Roncole, vicino a Busseto (Parma), il 10 ottobre 1813 da un oste e da una filatrice, Giuseppe Verdi manifestò precocemente il suo talento musicale, come testimonia la scritta posta sulla sua spinetta dal cembalaro Cavalletti, che nel 1821 la riparò gratuitamente "vedendo la buona disposizione che ha il giovinetto Giuseppe Verdi d'imparare a suonare questo istrumento"; la sua formazione culturale ed umanistica avvenne soprattutto attraverso la frequentazione della ricca Biblioteca della Scuola dei Gesuiti a Busseto, tuttora in loco.
I principi della composizione musicale e della pratica strumentale gli vennero da Ferdinando Provesi, maestro dei locali Filarmonici; ma fu a Milano che avvenne la formazione della sua personalità.
Non ammesso a quel Conservatorio (per aver superato i limiti d'età), per la durata di un triennio si perfezionò nella tecnica contrappuntistica con Vincenzo Lavigna, già "maestro al cembalo" del Teatro alla Scala, mentre la frequentazione dei teatri milanesi gli permise una conoscenza diretta del repertorio operistico contemporaneo.
L'ambiente milanese, influenzato dalla dominazione austriaca, gli fece anche conoscere il repertorio dei classici viennesi, soprattutto quello del quartetto d'archi. I rapporti con l'aristocrazia milanese e i contatti con l'ambiente teatrale decisero anche sul futuro destino del giovane compositore: dedicarsi non alla musica sacra come maestro di cappella, o alla musica strumentale, bensì in modo quasi esclusivo al teatro in musica.
La prima sua opera, nata come Rocester (1837), frutto di lunga elaborazione, e poi trasformata in Oberto, conte di San Bonifacio, venne rappresentata alla Scala il 17 novembre 1839, con esito tutto sommato soddisfacente.
L'impresario del massimo teatro milanese, Bartolomeo Merelli, gli offerse un contratto per altre due partiture: Un giorno di regno (Il finto Stanislao), opera buffa, ebbe una sola rappresentazione (5 settembre 1840), e solo con Nabucco, la cui prima ebbe luogo il 9 marzo 1842, il talento verdiano si rivelò appieno. Il modello dello spettacolo grandioso, dove la vicenda è disegnata a grandi tinte, si ripete nell'opera successiva, I lombardi alla prima crociata (Milano, Scala, 11 febbraio 1843); ed è con Ernani (Venezia, La Fenice, 9 marzo 1844) che l'esperienza drammatica si concretizza nel conflitto tra le passioni dei personaggi. Questa scelta stilistica prosegue con I due Foscari (Roma, Teatro Argentina, 3 novembre 1844), ed è ulteriormente raffinata in Alzira (Napoli, San Carlo, 12 agosto 1845). Tutte le opere della prima fase creativa verdiana si differenziano fra loro perchè in ciascuna di esse viene esplorato questo o quel particolare aspetto dell'esperienza drammatico-musicale. Così, in Giovanna d'Arco, dalla tragedia di Schiller (Milano, Scala, 15 febbraio 1845), l'elemento soprannaturale gioca un ruolo determinante nella vicenda, di nuovo attagliata soprattutto sul grandioso; mentre in Attila (Venezia, La Fenice, 17 marzo 1846) la sperimentazione riguarda tanto la spettacolarità sulla scena quanto l'organizzazione complessiva dei singoli atti che compongono la partitura. Con Macbeth (Firenze, La Pergola, 14 marzo 1847) Verdi affronta per la prima volta un modello shakespeariano, e soprattutto mette in evidenza le connessioni drammaticamente rilevanti tra momenti cruciali della vicenda, e questo con mezzi esclusivamente musicali.
A trentaquattro anni il compositore ha ormai raggiunto una fama internazionale; le sue opere si rappresentano con frequenza in tutti i teatri del mondo, e vengono commissionate dai principali teatri italiani.
Ma questo a Verdi non basta. La trasformazione de I lombardi in Jérusalem (Parigi, Opéra, 26 novembre 1847) costituisce il primo incontro con le esigenze (ma anche con gli imponenti mezzi a disposizione) del grand opéra francese, e di questa esperienza sono evidenti le tracce ne La battaglia di Legnano (Roma, Argentina, 27 gennaio 1849), in cui conflitti individuali ed aspirazioni patriottiche, sollecitate dal contemporaneo esplodere dei moti risorgimentali, si alternano nella partitura. Con Luisa Miller (Napoli, San Carlo, 8 dicembre 1849), di nuovo su modello schilleriano, i conflitti si spostano anche tra differenti livelli sociali, alla fine dei quali l'innocenza soccombe.
Con Stiffelio (Trieste, Teatro Grande, 16 novembre 1850) l'ambientazione borghese di una setta religiosa mette in luce il conflitto tra i sentimenti individuali e il dovere che la carica spirituale impone. Con Rigoletto (Venezia, La Fenice, 11 marzo 1851) l'arte verdiana raggiunge uno dei suoi vertici più alti grazie alla perfetta concatenazione drammatica (frutto anche della fedeltà al modello di Victor Hugo), realizzata con altrettanto perfetto equilibrio dei mezzi musicali impiegati: la vendetta del buffone di corte per l'oltraggio inflitto dal duca libertino alla figlia ricade spaventosa su di lui tra lo scatenarsi degli elementi naturali in tempesta. Sempre sulla dimensione degli individui si atteggia La traviata (Venezia, La Fenice, 6 marzo 1853), partitura accentrata sull'eroina, una cortigiana che alle convenzioni ipocrite della società in cui vive oppone il totale sacrificio di sé. A queste due vicende direzionali, nelle quali lo sviluppo dell'azione avviene con un ritmo intensissimo, si contrappone quella del Trovatore (Roma, Teatro Apollo, 19 gennaio 1853), ricavata dall'omonimo dramma di García Gutiérrez, in cui le motivazioni che determinano lo svolgimento dell'azione sono continuamente eluse; l'azione drammatica si sublima costantemente nel gesto musicale, realizzando una forma di teatralità pura per la quale non esistono modelli o confronti.
All'esperienza del grand opéra Verdi ritorna con Les Vêpres siciliennes (Paris, Opéra, 13 giugno 1855), affrontando per la prima volta le esigenze della declamazione in lingua francese, e mettendo a confronto ancora una volta conflitti tra individui con aspirazioni e sentimenti di un intero popolo. Oltre alla traduzione del Trovatore in Trouvère e l'impoverita trasformazione (soprattutto per esigenze di censura) di Stiffelio in Aroldo, con Simon Boccanegra (Venezia, La Fenice, 12 marzo 1857) Verdi sperimenta in maniera nuova tematiche e opposizioni politiche, mentre con Un ballo in maschera i conflitti sono in primo luogo all'interno di ciascuno dei principali personaggi, e sono rappresentati attraverso un gioco costante di simmetrie di situazioni e di travestimenti che trovano corrispondenza nelle continue variazioni della cellula ritmica che sta alla base dell'intera partitura. Analoga sperimentazione strutturale ritorna ne La forza del destino (San Pietroburgo, Teatro Imperiale, 10 novembre 1862) dove ancora una volta le improbabili peripezie degli individui e le loro sofferenze si stagliano contro l'indifferenza delle scene collettive.
Il ritorno all'orbita francese porta alla riscrittura di Macbeth (Paris, Théâtre Lyrique, 21 aprile 1865) e alla composizione di Don Carlos (Paris, Opéra, 11 marzo 1867), dove le esigenze spettacolari del genere vengono piegate alle necessità della più complessa fra tutte le realizzazioni drammatiche verdiane: i conflitti tra gli individui - e al loro interno - sono connessi tra loro in una vorticosa spirale, nella quale la concezione politica liberale del Marchese di Posa si confronta con quella assoluta di Filippo; ma su di entrambe prevale il potere della Chiesa impersonato dal Grande Inquisitore.
Verdi, che era stato eletto deputato nel primo Parlamento italiano e che su richiesta di Cavour aveva composto l'Inno delle nazioni per l'inaugurazione dell'Esposizione universale di Londra del 1862, vide con crescente preoccupazione l'assenza di un sentimento di appartenenza nella nazione appena creata; e non cessò di additare modelli nei quali riconoscere un patrimonio culturale comune; alla morte di Rossini (13 novembre 1868) propose una Messa da Requiem, omaggio collettivo dei maestri italiani al massimo esponente dell'arte loro (1869) e, rielaborando La forza del destino, scrisse una Sinfonia la cui articolazione è modellata su quella del rossiniano Guglielmo Tell.
La creazione di Aida (Il Cairo, Teatro dell'Opera, 24 dicembre 1871), voluta come opera "nazionale" egiziana da Ismail Pascià, portò ad una originalissima interpretazione, in chiave italiana, delle esigenze spettacolari e drammatiche del grand opéra; ancora una volta in quest'opera il conflitto tra il potere e l'individuo porta all'annientamento di quest'ultimo attraverso una caleidoscopica alternanza di esperienze stilistiche, musicali e spettacolari.
Davanti al diffondersi in Italia della musica strumentale d'Oltralpe Verdi reagì componendo un Quartetto (Napoli, 1 aprile 1873) per dimostrare che sapeva combattere il "nemico" con le sue stesse armi e, alla morte di Alessandro Manzoni, decise di comporre lui stesso, sviluppando il già fatto nell'ultimo movimento della collettiva Messa per Rossini, un Requiem, che di quella composizione ritiene l'articolazione testuale e l'alternanza di spessori sonori.
Ma il Requiem, ulteriore messaggio politico che identifica nel destinatario la massima gloria letteraria contemporanea e in Palestrina il modello storico secondo il quale si svolgono alcuni momenti cruciali della partitura, è una solitaria, totalmente soggettiva, meditazione sul mistero della morte, con tensioni costantemente frustrate verso una trascendenza avvertita come improbabile.
Ad un periodo piuttosto prolungato di apparente stasi ed inattività creativa seguirono il radicale rifacimento del Simon Boccanegra (1880-81), che segna fra l'altro l'inizio della collaborazione con Arrigo Boito, e la trasformazione di Don Carlos da grand opéra in cinque atti ad opera italiana (Milano, Scala, 10 gennaio 1884).
Con la composizione di Otello (Milano, Scala, 5 febbraio 1887) Verdi riporta il dramma al livello dell'individuo - il protagonista - che si dibatte e soccombe tra l'astrazione assoluta del bene - Desdemona - e quella del male - Jago -. Se in Otello sono ancora riconoscibili, pur nel flusso continuo del discorso sonoro e drammatico, nuclei statici nei quali si intravedono le forme musicali chiuse del passato, in Falstaff, l'estrema fatica operistica verdiana, l'azione si trasforma in puro gioco dell'intelletto, al quale corrisponde un altrettanto sottile e raffinato procedere di simmetrie sonore.
La parabola artistica di Verdi si chiuse con la composizione dei tre pezzi sacri, uno Stabat Mater ed un Te Deum per coro e grande orchestra, che incorniciano la preghiera alla Vergine dall'ultimo canto della Divina commedia, affidato a quattro voci femminili soliste e, a questi tre brani venne in seguito aggiunta, all'inizio, un'Ave Maria per coro a cappella, composta precedentemente. Anche qui, come nel Requiem, le aspirazioni ad una trascendenza si alternano ad una visione pessimistica della realtà umana, la sola alla quale Verdi crede veramente. E per i musicisti anziani Verdi dà vita in Milano ad una casa di riposo che egli definirà "l'opera mia più bella".
La morte di Verdi, il 27 gennaio 1901, segna la conclusione di un'era della vita italiana; l'apoteosi del suo funerale coincide invece con l'inizio della parabola crescente della fortuna dell'opera sua, mai come oggi viva ed attuale sulle scene di tutto il mondo.
I principi della composizione musicale e della pratica strumentale gli vennero da Ferdinando Provesi, maestro dei locali Filarmonici; ma fu a Milano che avvenne la formazione della sua personalità.
Non ammesso a quel Conservatorio (per aver superato i limiti d'età), per la durata di un triennio si perfezionò nella tecnica contrappuntistica con Vincenzo Lavigna, già "maestro al cembalo" del Teatro alla Scala, mentre la frequentazione dei teatri milanesi gli permise una conoscenza diretta del repertorio operistico contemporaneo.
L'ambiente milanese, influenzato dalla dominazione austriaca, gli fece anche conoscere il repertorio dei classici viennesi, soprattutto quello del quartetto d'archi. I rapporti con l'aristocrazia milanese e i contatti con l'ambiente teatrale decisero anche sul futuro destino del giovane compositore: dedicarsi non alla musica sacra come maestro di cappella, o alla musica strumentale, bensì in modo quasi esclusivo al teatro in musica.
La prima sua opera, nata come Rocester (1837), frutto di lunga elaborazione, e poi trasformata in Oberto, conte di San Bonifacio, venne rappresentata alla Scala il 17 novembre 1839, con esito tutto sommato soddisfacente.
L'impresario del massimo teatro milanese, Bartolomeo Merelli, gli offerse un contratto per altre due partiture: Un giorno di regno (Il finto Stanislao), opera buffa, ebbe una sola rappresentazione (5 settembre 1840), e solo con Nabucco, la cui prima ebbe luogo il 9 marzo 1842, il talento verdiano si rivelò appieno. Il modello dello spettacolo grandioso, dove la vicenda è disegnata a grandi tinte, si ripete nell'opera successiva, I lombardi alla prima crociata (Milano, Scala, 11 febbraio 1843); ed è con Ernani (Venezia, La Fenice, 9 marzo 1844) che l'esperienza drammatica si concretizza nel conflitto tra le passioni dei personaggi. Questa scelta stilistica prosegue con I due Foscari (Roma, Teatro Argentina, 3 novembre 1844), ed è ulteriormente raffinata in Alzira (Napoli, San Carlo, 12 agosto 1845). Tutte le opere della prima fase creativa verdiana si differenziano fra loro perchè in ciascuna di esse viene esplorato questo o quel particolare aspetto dell'esperienza drammatico-musicale. Così, in Giovanna d'Arco, dalla tragedia di Schiller (Milano, Scala, 15 febbraio 1845), l'elemento soprannaturale gioca un ruolo determinante nella vicenda, di nuovo attagliata soprattutto sul grandioso; mentre in Attila (Venezia, La Fenice, 17 marzo 1846) la sperimentazione riguarda tanto la spettacolarità sulla scena quanto l'organizzazione complessiva dei singoli atti che compongono la partitura. Con Macbeth (Firenze, La Pergola, 14 marzo 1847) Verdi affronta per la prima volta un modello shakespeariano, e soprattutto mette in evidenza le connessioni drammaticamente rilevanti tra momenti cruciali della vicenda, e questo con mezzi esclusivamente musicali.
A trentaquattro anni il compositore ha ormai raggiunto una fama internazionale; le sue opere si rappresentano con frequenza in tutti i teatri del mondo, e vengono commissionate dai principali teatri italiani.
Ma questo a Verdi non basta. La trasformazione de I lombardi in Jérusalem (Parigi, Opéra, 26 novembre 1847) costituisce il primo incontro con le esigenze (ma anche con gli imponenti mezzi a disposizione) del grand opéra francese, e di questa esperienza sono evidenti le tracce ne La battaglia di Legnano (Roma, Argentina, 27 gennaio 1849), in cui conflitti individuali ed aspirazioni patriottiche, sollecitate dal contemporaneo esplodere dei moti risorgimentali, si alternano nella partitura. Con Luisa Miller (Napoli, San Carlo, 8 dicembre 1849), di nuovo su modello schilleriano, i conflitti si spostano anche tra differenti livelli sociali, alla fine dei quali l'innocenza soccombe.
Con Stiffelio (Trieste, Teatro Grande, 16 novembre 1850) l'ambientazione borghese di una setta religiosa mette in luce il conflitto tra i sentimenti individuali e il dovere che la carica spirituale impone. Con Rigoletto (Venezia, La Fenice, 11 marzo 1851) l'arte verdiana raggiunge uno dei suoi vertici più alti grazie alla perfetta concatenazione drammatica (frutto anche della fedeltà al modello di Victor Hugo), realizzata con altrettanto perfetto equilibrio dei mezzi musicali impiegati: la vendetta del buffone di corte per l'oltraggio inflitto dal duca libertino alla figlia ricade spaventosa su di lui tra lo scatenarsi degli elementi naturali in tempesta. Sempre sulla dimensione degli individui si atteggia La traviata (Venezia, La Fenice, 6 marzo 1853), partitura accentrata sull'eroina, una cortigiana che alle convenzioni ipocrite della società in cui vive oppone il totale sacrificio di sé. A queste due vicende direzionali, nelle quali lo sviluppo dell'azione avviene con un ritmo intensissimo, si contrappone quella del Trovatore (Roma, Teatro Apollo, 19 gennaio 1853), ricavata dall'omonimo dramma di García Gutiérrez, in cui le motivazioni che determinano lo svolgimento dell'azione sono continuamente eluse; l'azione drammatica si sublima costantemente nel gesto musicale, realizzando una forma di teatralità pura per la quale non esistono modelli o confronti.
All'esperienza del grand opéra Verdi ritorna con Les Vêpres siciliennes (Paris, Opéra, 13 giugno 1855), affrontando per la prima volta le esigenze della declamazione in lingua francese, e mettendo a confronto ancora una volta conflitti tra individui con aspirazioni e sentimenti di un intero popolo. Oltre alla traduzione del Trovatore in Trouvère e l'impoverita trasformazione (soprattutto per esigenze di censura) di Stiffelio in Aroldo, con Simon Boccanegra (Venezia, La Fenice, 12 marzo 1857) Verdi sperimenta in maniera nuova tematiche e opposizioni politiche, mentre con Un ballo in maschera i conflitti sono in primo luogo all'interno di ciascuno dei principali personaggi, e sono rappresentati attraverso un gioco costante di simmetrie di situazioni e di travestimenti che trovano corrispondenza nelle continue variazioni della cellula ritmica che sta alla base dell'intera partitura. Analoga sperimentazione strutturale ritorna ne La forza del destino (San Pietroburgo, Teatro Imperiale, 10 novembre 1862) dove ancora una volta le improbabili peripezie degli individui e le loro sofferenze si stagliano contro l'indifferenza delle scene collettive.
Il ritorno all'orbita francese porta alla riscrittura di Macbeth (Paris, Théâtre Lyrique, 21 aprile 1865) e alla composizione di Don Carlos (Paris, Opéra, 11 marzo 1867), dove le esigenze spettacolari del genere vengono piegate alle necessità della più complessa fra tutte le realizzazioni drammatiche verdiane: i conflitti tra gli individui - e al loro interno - sono connessi tra loro in una vorticosa spirale, nella quale la concezione politica liberale del Marchese di Posa si confronta con quella assoluta di Filippo; ma su di entrambe prevale il potere della Chiesa impersonato dal Grande Inquisitore.
Verdi, che era stato eletto deputato nel primo Parlamento italiano e che su richiesta di Cavour aveva composto l'Inno delle nazioni per l'inaugurazione dell'Esposizione universale di Londra del 1862, vide con crescente preoccupazione l'assenza di un sentimento di appartenenza nella nazione appena creata; e non cessò di additare modelli nei quali riconoscere un patrimonio culturale comune; alla morte di Rossini (13 novembre 1868) propose una Messa da Requiem, omaggio collettivo dei maestri italiani al massimo esponente dell'arte loro (1869) e, rielaborando La forza del destino, scrisse una Sinfonia la cui articolazione è modellata su quella del rossiniano Guglielmo Tell.
La creazione di Aida (Il Cairo, Teatro dell'Opera, 24 dicembre 1871), voluta come opera "nazionale" egiziana da Ismail Pascià, portò ad una originalissima interpretazione, in chiave italiana, delle esigenze spettacolari e drammatiche del grand opéra; ancora una volta in quest'opera il conflitto tra il potere e l'individuo porta all'annientamento di quest'ultimo attraverso una caleidoscopica alternanza di esperienze stilistiche, musicali e spettacolari.
Davanti al diffondersi in Italia della musica strumentale d'Oltralpe Verdi reagì componendo un Quartetto (Napoli, 1 aprile 1873) per dimostrare che sapeva combattere il "nemico" con le sue stesse armi e, alla morte di Alessandro Manzoni, decise di comporre lui stesso, sviluppando il già fatto nell'ultimo movimento della collettiva Messa per Rossini, un Requiem, che di quella composizione ritiene l'articolazione testuale e l'alternanza di spessori sonori.
Ma il Requiem, ulteriore messaggio politico che identifica nel destinatario la massima gloria letteraria contemporanea e in Palestrina il modello storico secondo il quale si svolgono alcuni momenti cruciali della partitura, è una solitaria, totalmente soggettiva, meditazione sul mistero della morte, con tensioni costantemente frustrate verso una trascendenza avvertita come improbabile.
Ad un periodo piuttosto prolungato di apparente stasi ed inattività creativa seguirono il radicale rifacimento del Simon Boccanegra (1880-81), che segna fra l'altro l'inizio della collaborazione con Arrigo Boito, e la trasformazione di Don Carlos da grand opéra in cinque atti ad opera italiana (Milano, Scala, 10 gennaio 1884).
Con la composizione di Otello (Milano, Scala, 5 febbraio 1887) Verdi riporta il dramma al livello dell'individuo - il protagonista - che si dibatte e soccombe tra l'astrazione assoluta del bene - Desdemona - e quella del male - Jago -. Se in Otello sono ancora riconoscibili, pur nel flusso continuo del discorso sonoro e drammatico, nuclei statici nei quali si intravedono le forme musicali chiuse del passato, in Falstaff, l'estrema fatica operistica verdiana, l'azione si trasforma in puro gioco dell'intelletto, al quale corrisponde un altrettanto sottile e raffinato procedere di simmetrie sonore.
La parabola artistica di Verdi si chiuse con la composizione dei tre pezzi sacri, uno Stabat Mater ed un Te Deum per coro e grande orchestra, che incorniciano la preghiera alla Vergine dall'ultimo canto della Divina commedia, affidato a quattro voci femminili soliste e, a questi tre brani venne in seguito aggiunta, all'inizio, un'Ave Maria per coro a cappella, composta precedentemente. Anche qui, come nel Requiem, le aspirazioni ad una trascendenza si alternano ad una visione pessimistica della realtà umana, la sola alla quale Verdi crede veramente. E per i musicisti anziani Verdi dà vita in Milano ad una casa di riposo che egli definirà "l'opera mia più bella".
La morte di Verdi, il 27 gennaio 1901, segna la conclusione di un'era della vita italiana; l'apoteosi del suo funerale coincide invece con l'inizio della parabola crescente della fortuna dell'opera sua, mai come oggi viva ed attuale sulle scene di tutto il mondo.
fonte: giuseppeverdi.it
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