martedì 8 gennaio 2013

Traviata

La traviata è un'opera in tre atti di Giuseppe Verdi su libretto di Francesco Maria Piave, tratto dalla pièce teatrale di Alexandre Dumas (figlio) La signora delle camelie; fa parte della "trilogia popolare" assieme a Il trovatore e a Rigoletto.
Fu in parte composta nella villa degli editori Ricordi a Cadenabbia, sul lago di Como. La prima rappresentazione avvenne al Teatro La Fenice di Venezia il 6 marzo 1853 ma, a causa soprattutto di interpreti non all’altezza e della scabrosità dell'argomento, si rivelò un sonoro fiasco; ripresa l’anno successivo con interpreti più validi e retrodatando l'azione di due secoli, riscosse finalmente il meritato successo. Gli interpreti e gli artisti coinvolti nella prima del 1853 furono i seguenti:

PersonaggioInterprete
ViolettaFanny Salvini Donatelli
Alfredo GermontLodovico Graziani
Giorgio GermontFelice Varesi
Flora BervoixSperanza Giuseppini
AnninaCarlotta Berini
GastoneAngelo Zuliani
DoupholFrancesco Dragone
Marchese d'ObignyArnaldo Silvestri
Dottor GrenvilAndrea Bellini
GiuseppeGiuseppe Borsato
Domestico di FloraGiuseppe Tona
CommissionarioAntonio Manzini
SceneGiuseppe Bertoja
Maestro al cembaloGiuseppe Verdi (per tre recite)
Primo violino e direttore d'orchestraGaetano Mares


Atto primo
A Parigi, nella lussuosa casa di Violetta Valéry, «cortigiana» di alto bordo, è in corso l’ennesima festa. Vi partecipano i soliti mondani aristocratici, le loro ‘signore’, qualche dama di dubbia nobiltà e moralità. È un tripudio di chiacchiere, di risate e di musica. Tra i presenti, per la prima volta e piuttosto a disagio, c’è il giovane Alfredo Germont: ha chiesto all’amico Gastone di venire introdotto, perché da qualche tempo è segretamente innamorato della padrona di casa. Costei si è accorta delle attenzioni del giovane, dei suoi complimenti così per bene, e vi risponde schernendosi ironicamente. Gastone propone un brindisi e invita Alfredo a formularlo («Libiam nei lieti calici»). Rivolto a tutta la compagnia, in realtà il brindisi diventa un duetto di sottintesi tra il giovane e Violetta: «La vita è nel tripudio» inneggia lei, «Quando non s’ami ancora» risponde lui. Intanto nell’attiguo salone si aprono le danze e tutti vi si dirigono, eccetto Violetta costretta ad arrestarsi per un violento colpo di tosse; per assisterla resta con lei Alfredo. Così rimangono soli e le profferte del giovane si fanno più serrate («Un dì felice, eterea»), mentre dall’altra sala giunge attutito il suono di un valzer. La donna da parte sua ribadisce di esser disposta solo all’amicizia. Il colloquio è interrotto da Gastone, rientrato a vedere che cosa i due stiano facendo. Ottenuto un appuntamento per il giorno dopo, Alfredo se ne va, mentre Violetta rimasta sola medita, turbata, sulle sue parole d’amore: forse, pensa, è arrivato anche per lei il momento di un amore vero e reciproco («È strano!...»… «Ah, forse è lui che l’anima»). Poi, come timorosa di illudersi troppo, riafferma la sua indipendenza da ogni legame, la dedizione alla libertà e ai piaceri dei sensi («Follie!... follie!... delirio vano è questo!...»…«Sempre libera degg’io»).

Atto secondo
Siamo in una casa di campagna nei dintorni di Parigi. Entra Alfredo, depone il fucile da caccia e canta la sua gioia per i tre mesi sereni trascorsi finora con l’amata Violetta («Lunge da lei per me non v’ha diletto!»...«Dei miei bollenti spiriti»). Ma subito la sua felicità s’incrina, quando scorge la domestica Annina rientrare da Parigi e viene a sapere che è stata mandata dalla signora a vendere cavalli, cocchi e quant’altro lei possieda: la coppia sta spendendo troppo, e d’altra parte lei voleva nascondergli le sue difficoltà economiche. Resosi conto della situazione («O mio rimorso, o infamia»), Alfredo decide di correre in città per cercare i soldi. Intanto sopraggiunge Violetta. È tranquilla e felice, apre la posta che le arriva da Parigi; sorride agli inviti dei vecchi amici che la reclamano a feste che a lei ormai non interessano più, quando le annunciano l’arrivo di un signore. È il padre di Alfredo, Giorgio Germont. Costui prima l’accusa di rovinare economicamente il figlio; poi, quando Violetta gli mostra, documenti alla mano, che è lei che si sta rovinando, cambia il tono recriminatorio in rammarico e le dice di avere una figlia in procinto di sposarsi («Pura siccome un angelo»), ma il futuro genero ha deciso di lasciarla se Alfredo non interrompe il vergognoso rapporto. Violetta cerca un compromesso, come allontanarsi dall’amato per un po’ di tempo, ma Germont insiste: dovrà lasciarlo per sempre. La donna allora esterna tutta la forza del suo sentimento («Non sapete quale affetto») e gli dice che preferirebbe morire. Ma il vecchio ipocrita finisce col convincerla insinuandole che l’amore è legato alla bellezza («Un dì, quando le veneri»), che cede presto alle prime rughe e alla noia. A questa possibile verità, la donna china il capo («Dite alla giovane»): farà credere all’amato di non poter lasciare la vita di prima. Chiede soltanto una grazia al genitore («Morrò!... la mia memoria»): che un giorno Alfredo, quando lei sarà morta, conosca la verità. Ormai sola, Violetta comincia a scrivere la lettera che la condannerà, ma viene interrotta dal rientro di Alfredo. Egli le chiede che cosa stia scrivendo e a chi, ma è turbato perché ha saputo dell’arrivo del padre. Violetta è sconvolta, parla e piange, poi esplode in un urlo d’amore («Amami, Alfredo») e corre in giardino. Poco dopo ad Alfredo viene recapitata una lettera, quella di Violetta; la legge e, disperato, si abbandona nelle braccia del padre rimasto nei pressi. Germont tenta di convincere il figlio a tornare a casa («Di Provenza il mar, il suol»). Ma questi lo respinge, non lo ascolta, pensa a un probabile rivale (il barone Douphol), fugge a precipizio per raggiungere la donna e vendicarsi dell’abbandono.
Siamo ora nel palazzo di Flora, l’amica di Violetta, nel pieno di una festa in maschera. Ci sono signore vestite da zingare («Noi siamo zingarelle») e signori, tra cui Gastone, abbigliati da toreri («Di Madride noi siam mattadori»). E tutti sanno già che i due amanti rifugiatisi in campagna si sono separati. Tuttavia l’arrivo alla festa di Alfredo coglie di sorpresa i presenti. Poco dopo arriva anche Violetta, al braccio di Douphol. L’incontro è imbarazzante, la tensione è estrema. Alfredo vince al gioco tutti, perfino il suo rivale barone. Viene annunciata la cena e i convitati si recano in sala da pranzo. Violetta chiama in disparte Alfredo, cerca di giustificare il suo comportamento ma, per non svelare la trama paterna, è costretta a mentire, a dichiarare che ama il barone. Infuriato, il giovane invita tutti gli altri ad ascoltarlo e alla loro presenza denuncia la donna («Ogni suo aver tal femmina»), gettandole ai piedi con disprezzo una borsa di denari. Per un gesto così volgare unanime è la riprovazione («Oh, infamia orribile»), a cui si unisce quella del padre Germont entrato appena in tempo per assistere alla scena («Di sprezzo degno se stesso rende»). L’atto termina con un concertato che assomma la condanna dei convitati alla disperazione di Violetta e al rimorso di Alfredo.

Atto terzo
Siamo ai momenti estremi della sventurata giovane; la tubercolosi ormai, come dirà il medico ad Annina, non le accorda che poche ore. In scena infatti, accanto a lei, vigila la fedele domestica; in seguito arriva il dottore, a chiedere come la malata abbia passato la notte. Fuori il carnevale impazza, si sentono i canti e le danze. Violetta si consola leggendo e rileggendo la lettera ricevuta da Germont, che la informa del duello tra il barone e suo figlio, in cui il primo è rimasto ferito ma lievemente; inoltre le scrive che Alfredo sa ora la verità sul suo sacrificio e che dall’estero sta tornando precipitosamente da lei. E lei aspetta tra speranza, timore e la consapevolezza che ormai è troppo tardi («Addio del passato»). Torna Annina in grande agitazione, e non fa a tempo ad annunciarle l’arrivo dell’amante che lui entra e l’abbraccia. Alla commozione e alla gioia segue un duetto di illuso ottimismo («Parigi, o cara»).Violetta vorrebbe alzarsi e partire subito, ma le forze la tradiscono e ricade sul canapè («Gran Dio!... morir sì giovane»), tra il dolore e la costernazione di Alfredo. Sopraggiunge anche Germont, pieno di rimorsi. «Oimè, tardi giungeste!» gli mormora l’infelice. Poi Violetta lascia nelle mani dell’amato un suo ritratto dei tempi migliori («Prendi, quest’è l’immagine»). Per un attimo sembra riprendersi; invece muore tra le braccia dei suoi cari.

Tempi dell'opera:
Atto primo: 45 minuti

Intervallo 30 minuti
Atto secondo: 40 minutiIntervallo 25 minuti
Atto terzo: 30 minuti


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